Il guardiano del faro è ancora oggi uno dei mestieri più affascinanti, avvolto da un silenzioso fascino e un poetico mistero.
Eppure i “custodi di luce” rischiano di scomparire, sopraffatti dall’innovazione e dalle tecnologie che hanno stravolto il mestiere.
In Italia i guardiani del faro sono 119, dimezzati rispetto a vent’anni fa, mentre si stima che circa il 50% dei fari sono rimasti senza custode.
Quanto conta ancora la componente umana?
Potremmo ricamarci mille discorsi sopra, la classica lotta uomo-tecnologia, nell’attesa della piena automazione che farà scomparire molti mestieri.
Certo, perché i guardiani del faro non sono l’unica categoria succube di una tecnologia sempre più “vorace”, i casellanti delle autostrade sono un altro esempio, certo meno poetico, ma non per questo da dimenticare.
Siamo circondati da innovazioni sempre più invasive: semplificano la vita di molti, togliendo l’umanità di molti gesti. Come il guardiano del faro.
Siamo sicuri che un macchinario possa sostituire la presenza di un uomo che chiami quel posto “casa”? E soprattutto, è per tutti considerare “casa” il proprio luogo di lavoro?

Perché il farista deve avere una sensibilità particolare, uno stretto rapporto con la natura e la solitudine, un silenzioso rispetto e timore per il mare, un amore sconfinato per la propria roccaforte.
Ci troviamo di fronte a una metafora straordinaria del cambiamento, il giro di boa decisivo per il rapporto uomo/lavoro. Si stanno trasformando anche i mestieri che letteralmente potevano costituire la vita di una persona: dallo smartworking ai nomad worker, ci stiamo allontanando sempre di più dal luogo di lavoro, e il nostro ufficio diventa il mondo.
Un programmatore può tranquillamente lavorare al pc con i piedi sulla sabbia di Copacabana, un SEO specialist può lavorare seduto a bordo di un treno ad alta velocità in Giappone e una traduttrice può permettersi di preparare le bozze nel suo appartamento, indossando pigiama e comode pantofole.
Ci stiamo distaccando sempre più dal binomio ufficio/lavoro, e ci rendiamo sempre più conto dell’importanza del tempo che abbiamo a disposizione: non può più essere sprecato.
Sappiamo benissimo che una giornata lavorativa di 8 ore diventa subito di 10 o 11, fra gli spostamenti nel traffico, gli straordinari e le pause caffè per tenerci svegli davanti al monitor. Ma allora perché lo facciamo?
È proprio il guardiano del faro che torna ad essere uno straordinario esempio del legame fra l’uomo e il luogo di lavoro, perché per lui non è un ufficio, è proprio una casa.
A tal proposito ci viene in aiuto la traduzione in inglese di faro: “lighthouse”, letteralmente “casa di luce”. Gli anglosassoni sono sempre stati avari di parole interessanti, in nome di una più pragmatica semplificazione, tuttavia in questo caso non c’è termine migliore per descrivere uno dei mestieri che rappresenta l’ultima roccaforte di un paradigma che ci ha caratterizzato per centinaia di anni.
In fondo siamo tutti faristi, viviamo in un mondo che ci costringe a sottostare ai suoi schemi che purtroppo non vanno bene per tutti; il paradosso è che per i faristi la tecnologia li allontana da “casa”, quella roccaforte di solitudine che dava da vivere a intere famiglie. Per molte categorie invece la tecnologia potrebbe rappresentare una soluzione per trovare la loro “casa di luce” proprio grazie ai mezzi messi a disposizione dalle innovazioni dello smartworking: bastano in fondo un PC, uno smartphone e strumenti come Skype o Microsoft Teams, solo per citarne alcuni.
In questo modo molti di noi potranno trovare la loro luce, recuperare spazi della propria vita ed aumentare la produttività, senza investire troppo tempo, che è il bene più prezioso che abbiamo.