Il ritratto di se stessi

Molto spesso durante i colloqui di lavoro ci viene chiesto di descriverci attraverso quattro aggettivi; chi si è preparato anticipatamente aspettandosi la domanda fa sfoggio di un vocabolario assai ricercato, mentre coloro che vengono presi contropiede magari usano aggettivi più banali e ricorrenti. Tutto questo per dare un’idea di cosa ci stia sotto alla nostra forma corporea, e per dare al nostro manichino una parvenza di umanità.

Ma questi aggettivi che andiamo a scegliere per descrivere noi stessi, queste etichette che ci cuciamo addosso sono veramente esplicative del nostro essere?

Di sicuro ad un primo interlocutore possono dare un’idea sostanziale di cosa si ha davanti ai propri occhi, ma facciamo subito chiarezza. Tutto cambia quando si prende in esame una prospettiva diversa. Vedi allora che gli aggettivi che abbiamo scelto ai nostri occhi danno un’idea, mentre per altri significano qualcosa di differente. Ci si può descrivere attraverso aggettivi che per noi trasmettono dei valori, altri invece potrebbero dargli un peso differente se non opposto.

Gli aggettivi son solo etichette.

Sono parole frutto del pensiero umano, atte a trasmettere sensazioni ed emozioni, ma queste vengono percepite in maniera diversa da ogni individuo; e diciamocelo, quanto è difficile descrivere se stessi?

Giusy Cunsolo, Self Portrait

Pensiamo solo al fatto di quante forme possa prendere il nostro essere. C’è la nostra persona studiata dal punto di vista interno, ovvero il nostro, c’è la nostra persona esaminata dal punto di vista dei nostri genitori, quella vista dai nostri amici, quella vista da un passante qualsiasi. Vi è un’unica essenza, ma essa viene percepita in maniera completamente diversa in base dal soggetto che la osserva. E’ come se fossimo tutti dei pittori, che presa una tela bianca e un modello, ne dipingono un ritratto, facendone la propria opera personale, la propria interpretazione di ciò che vedono.

Noi pensiamo di conoscerci appieno,  ma siamo talmente abituati a vivere nel nostro mondo interno che non ci soffermiamo ad auto analizzarci, ma bensì ci risulta più naturale e più facile andare ad etichettare tutto ciò che ci sta intorno. Tendiamo a dare un nome, un senso a tutto ciò che entra nel nostro campo visivo, sia esso animato od inanimato. Ed ecco che noi siamo i primi a giudicare le persone dalle apparenze, dai modi che hanno nel rapportarsi con le altre persone, da ciò che noi pensiamo di loro in base alle informazioni ottenute: etichettiamo queste persone, come se fossero prodotti destinati ad un supermercato. Ogni prodotto simile andrà a finire nella propria categoria di appartenenza, e noi saremo liberi di scegliere i prodotti che più ci aggradano dagli scaffali, andando a denigrare invece quelli che non ci piacciono.

Etichettare è la forma più facile per categorizzare.

Ed ecco che quindi una cosa così profonda, di qui è difficile cogliere la vera essenza, viene facilmente etichettata con un aggettivo, una semplificazione che non è in grado di cogliere tutte le sfumature di una forma così intangibile. Giudichiamo tutto in maniera superficiale, perché ci viene più semplice, ovvero quelle caratteristiche che prime si balenano davanti ai nostri occhi. Ma ogni punto di vista è differente, ognuno vede forse ciò che vuole vedere o che riesce a vedere, la profondità è l’ampiezza visiva cambia da soggetto a soggetto, cambia in base alla propria personalità alla propria cultura.

Forse prima di giudicare ciò che ci sta intorno, dovremo prima riflettere sui noi stessi, non tanto per poi essere dei guru nell’ettichettare al meglio ciò che ci circonda, ma per comprendere la reale difficoltà di descrivere a parole ciò che non si vede, la cosiddetta anima umana, e probabilmente ci renderemo ben presto conto che giudicare e fare giudizi affrettati, ci permette sì di etichettare le cose, ma ci priva anche di gran parte della scoperta.

Matteo Giacon
Matteo Giacon
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