Fin da piccolo sono stato un grande appassionato di Fabrizio De André e ancora oggi trovo nei suoi testi una poetica attuale e mai scontata. Pur conoscendo a memoria ogni sua canzone, non mi stanco mai di scoprire le sfumature nascoste dietro ogni parola e i mille significati che ognuno di noi potrebbe riportare nella sua vita.
Sicuramente una delle citazioni che più mi hanno fatto riflettere è estrapolata dal brano Verranno a chiederti del nostro amore, ballata struggente dell’album concettuale Storia di un impiegato, in cui il protagonista viene rinchiuso in galera dopo aver fallito il suo progetto eversivo di lotta contro il potere. La bomba da lui piazzata, infatti, non colpisce i suoi reali obiettivi, quanto piuttosto un innocente chiosco di giornali.
Ed è da qui, che il nostro protagonista rivolge tra le sbarre le sue preghiere alla moglie, mettendola prima in guardia sui “cacciatori di notizie” che busseranno alla sua porta, poi chiedendole di non “vendere” le sue emozioni spacciandole per non autentiche, come appunto il loro amore.
Amore che fin dalle prime strofe appare spento, mai capace di spingersi al di là di una flebile passione.
Ma è proprio nei versi finali che, personalmente, ho trovato una citazione che porto spesso con me nei momenti di bisogno, quasi come un mantra, evidentemente scorporata dal contesto della ballata ed adattata alla vita di tutti i giorni.
“Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”

Il prigioniero in questo caso si rivolge alla moglie, ponendole la questione della scelta, in particolare il dilemma della scelta fra l’azione e quella passività legata alla deresponsabilizzazione, quest’ultima rappresentata dall’immagine di un “Casanova che ti promette di presentarti ai genitori”.
La paura del marito è che la moglie, in sua assenza, si abbandoni alla marea dell’abulia e della mancanza di volontà, in cui le onde sono le scelte degli altri che finiscono per controllare il destino e una vita intera.
È una questione che ogni giorno ci troviamo a fronteggiare, dalle piccole scelte a quelle più grandi; quotidianamente scegliamo qualcosa, al supermercato, quando decidiamo che serie guardare su Netflix, quando aprendo l’armadio scegliamo la camicia migliore da indossare o cosa prendere dal frigorifero.
La nostra è una vita fatta di scelte, fortunatamente la maggior parte di esse sono controllate da noi stessi, ma le scelte importanti?
C’è una scelta davvero importante nella nostra vita che non è quasi mai sotto il nostro controllo, ed è proprio quella del posto di lavoro.
Quante volte ci siamo trovati a dover scendere a compromessi? A partire dai primi stage da neo-laureati, in cui il ventaglio di scelte era limitato alle aziende in grado di fornire un processo coerente o quantomeno adeguato al percorso di studi.
Per non parlare della paga, in quanti hanno avuto il lusso di poter fare una scelta del posto di lavoro che offrisse il maggior vantaggio economico rapportato alla posizione desiderata?
Lasciamo per un attimo da parte i freddi numeri, e concentriamoci sulle aspirazioni personali, perché se è vero che i soldi non fanno la felicità è anche vero che un ambiente lavorativo demotivante può essere un boomerang che causa pesanti ripercussioni sul benessere psico-fisico di una persona.

Ed eccoci di nuovo al momento della scelta, quante volte viene presa da noi e quante dall’azienda? Quanto le aspirazioni di ognuno coincidono con le offerte che si trova davanti?
Questione numero uno: ci troviamo in un mondo del lavoro ultra-competitivo, il lusso di scegliere è effettivamente per pochi e, se si vogliono portare i soldi a casa a fine mese, scendere a compromessi è quasi sempre un obbligo.
Questione numero due: è comprovato che, soprattutto per i laureati delle facoltà umanistiche, c’è ampia distanza fra competenze e coerenza con la posizione lavorativa occupata. Questo cosa vuol dire, che se non sei laureato in medicina o in biologia è altamente probabile che lavorerai in un settore che non si avvicina minimamente al tuo percorso di studi.
Questione numero tre: i punti precedentemente elencati possono essere facilmente smentiti con una semplice decisione, mettersi in proprio.
Ho recentemente letto il libro di Marco Montemagno Codice Montemagno, in cui più volte afferma che “diventare imprenditore di te stesso è la scelta migliore che potresti fare”.
Montemagno lo seguo da parecchio tempo, a volte mi trovo d’accordo con ciò che dice, altre volte lo trovo niente più che un abile “incantatore di genti” con supercazzole mozzafiato, motivo per il quale mi aggancio con il giusto equilibrio a questa sua “verità svelata”.
Come lui stesso afferma, l’importante è “ragionare da imprenditore di te stesso”, perché la mentalità del dipendente divide il mondo in bianco e nero, l’imprenditore di se stesso lo vede con mille sfumature di grigio (in questo caso il bestseller di E. L. James non c’entra).
A mio avviso è veramente importante allenarci fin da subito per acquisire questa mentalità, anche se non avremo mai un’impresa tutta nostra, per il semplice fatto che solo così ci possiamo “difendere” dalle scelte che altri faranno per noi.
Avere il coraggio di intraprendere, di portare avanti le proprie idee e, appunto, di scegliere, è un dono di pochi e, pur avendo l’attitudine, questa va allenata, giorno dopo giorno.
Da qui deriva l’importanza della formazione, di quel learning by doing che ha fatto la fortuna di molti giovani imprenditori digitali e non solo.
Curare il personal branding è un altro punto chiave, se la formazione è il nostro scudo un brand personale forte può essere la nostra spada in grado di aprire portoni che sembravano inespugnabili.
Abbinando questi due fattori a un lavoro costante, con una comunicazione mirata, si potrà ottenere, quasi con assoluta certezza, la possibilità di scelta e passare in un attimo dall’altro lato.

Noi giovani siamo abituati a nuotare in un mare di squali, dove quelli con i denti più affilati sono più spesso le aziende che i nostri coetanei “rivali”.
Imparare ad avere un atteggiamento attivo, propositivo e, con la giusta dose, “aggressivo”, è l’unico segreto per non farsi trovare nella rete di qualche pescatore troppo pigro per capire chi si trova di fronte, che si accontenterà di farci nuotare per una vita in un acquario, magari con vista sull’oceano, ma senza la libertà di essere noi stessi.