Mamma mi ci vedevo già a 16 anni. In maniera esagerata pure. Di ben 4 figli maschi avuti entro i 30, e di uno mi ricordo pure il nome altisonante che gli volevo dare: Raúl. Così pensavo.
Poi a 19 anni ho cominciato a lavorare fuori regione e ci ho preso gusto. Ho fatto la trottola per 5 anni, prima di fermarmi di nuovo in Puglia, ma avevo capito che l’indipendenza economica è una gran cosa e l’idea della maternità è scivolata nell’ultimo cassetto, chiusa in uno scrigno di velluto che ogni tanto riaprivo, senza malinconie.
A chi chiedeva, nel corso degli anni, rispondevo semplicemente che non ne sentivo la mancanza e, specie negli ultimi anni, quando mi sono trasferita in Toscana lontana da parenti ed amici, ho aggiunto la frase di rito – non priva di una sua pratica logica – “Qui non abbiamo nessuno. Organizzare famiglia e lavoro non sarebbe facile”.
Evidentemente, qualcuna non poteva aspettare ad arrivare. L’ha fatto improvvisamente (si, peeeeeeeee. È stato un errore di calcolo…) quando io avevo quasi 39 anni. La scienza medica mi definisce primipara attempata. Definizione di “cacca” per dire che ti sei decisa per il primo figlio quando, biologicamente, il tuo utero comincia a diventare vecchio.
Io, che sono della categoria di quelle che vedono il bicchiere sempre mezzo pieno, ci ho visto l’opportunità di essere seguita “aggratis” per quegli esami che, in genere, prima dei 35 anni sono tutti a pagamento.
Tipo l’amniocentesi, che mi ha dato la certezza che le leggende metropolitane sulla forma della pancia e sui gusti alimentari in gravidanza non danno garanzia di che sesso avrà tuo figlio. Infatti, proprio quando stavamo già ragionando sui nomi maschili, è saltato fuori che aspettavo una femminuccia.

Ho vissuto i 9 mesi senza paranoie, nonostante la rottura della tiroide impazzita e del diabete nell’ultimo trimestre. Controllare le quantità di pizza e pane è stato uno strazio. Solo controllare gli stimoli della vescica nelle ultime settimane è stato peggio.
Mia figlia, che già in pancia faceva a modo suo, si è presentata al mondo con due settimane di anticipo. Il giorno della festa della donna di un anno fa m’ha reso le chiavi dell’utero in affitto (quello mio) alle 5. E io e mio marito, andando incontro alle prime luci del mattino, abbiamo deciso di chiamarla Alba.
Doglie tutto sommato sopportabili, l’ebbrezza del tentato parto in acqua (miseramente fallito perché mi faceva un caldo boia e mi sono spompata dopo 3 ore) e poi Alba mi è arrivata tra le braccia.
Venti anni di attesa hanno avuto il loro perché. Mi sono venute in mente tutte le amiche che in quegli anni mi dicevano “quando sarai mamma, capirai”. Diciamo che i miei quasi 40 anni d’età hanno il loro risvolto meno poetico. Non ho mai vissuto la gravidanza in modo smielato, né l’allattamento al seno (il Cielo ha sentito le mie migliori bestemmie in preda ai dolori).
Guardo i progressi di Alba e non li vedo come il miracolo della natura, ma come la ragionata evoluzione di un essere che, arrotolata nella mia pancia, nuotava in acqua e urina e ora mi dà schiaffoni in faccia se provo a dirle di no. Alla fantastica età di 14 mesi.
Il “bambinese” è un linguaggio che non conosco. Purtroppo, quei versi strusi che dovrebbero essere il tentativo dell’adulto di comunicare con il neonato mai li ho sopportati e mai li ho messi in pratica. Anzi, ora sono nel pieno della sfida del bilinguismo. Perché Alba ha sangue arlecchino, italiano e albanese, e io ho la fortuna di conoscere benino anche la lingua madre di mio marito.
A cosa non mi sono ancora abituata? Alla casa sottosopra e alle notti insonni. Le ultime mi accompagnano dalla gravidanza, per cui ragionate un po’ su in che condizioni è il mio cervello dopo quasi 2 anni di mancato sonno decente.
Tornando indietro, aspetterei ancora così tanto per avere un figlio? Forse si, conoscendomi. Non riesco a forzare l’ordine delle mie priorità di vita e Alba è arrivata solo quando mi sono resa conto che non mi costava fatica darle il primo posto.

Mi sento di rimproverare le donne che negano l’idea della maternità? Manco per niente. Fino a un paio di anni fa facevo parte della squadra. Il cambiamento è stato così drastico, perché inaspettato, che non me ne sono nemmeno resa conto.
Sento la fatica di crescere un bambino? Si, tanto. Non abbiamo l’aiuto dei nonni e degli zii. Il mio ritorno al lavoro è stato bloccato dalla chiusura dei nidi eAlba non ha dei cuginetti con cui giocare.
Messa così, sembra la tragedia. In realtà, è solo la condizione di tante mamme in Italia. E a quelle con la visione a cuoricino io non credo proprio. Farei sonore pernacchie se solo le sapessi fare.
Ma non c’è un solo giorno da mamma che non rivivrei nello stesso modo. Pianti e scazzi compresi. Alba è stata il miglior regalo dei miei primi 40 anni. Me ne accorgo ogni mattina quando si sveglia ridendo e mi punta il dito contro per farsi prendere in braccio.
“Quando sarai mamma, capirai”. Avevano tutte ragione.