L’Italia è uno dei Paesi più anziani del mondo, reduce da una situazione di prolungata e sofferente stagflazione, ovvero inflazione unita a stagnazione economica.
Tutto questo si ripercuote sulle politiche adottate, spesso rispondenti alle necessità di chi ha qualche capello bianco in più.
Innanzi alle difficoltà inerenti la ricerca di un impiego (soprattutto se si è alle prime esperienze lavorative) o più semplicemente di avanzare nella propria carriera, sembra oramai d’obbligo porsi il seguente interrogativo: vale davvero la pena tentare la sorte altrove?
Oggigiorno, la risposta è senza dubbio affermativa. Perché?
Partiamo dalle ragioni di chi sostiene il contrario.
Tralasciando gli aspetti psicologici (il cambiamento spesso può creare timore), le motivazioni sono le più diverse. Vediamone alcune: l’idea che bisogna rimboccarsi le mani per il bene del proprio Paese/Regione/Città, l’illusione che il proprio CV o il “pezzo di carta” sia sufficiente per trovare il lavoro desiderato, ritenere i programmi di scambio internazionale poco utili o attinenti col percorso studi. Sono tutte ragioni condivisibili, ma non tengono conto della realtà del mercato del lavoro italiano.
Come detto in precedenza, il nostro Paese è in una situazione economica difficile in cui la maggioranza della popolazione cerca di consolidare il proprio stile di vita a discapito dei giovani.
A tutto ciò, si aggiungono le responsabilità istituzionali nella loro inerzia e incostanza nel promuovere seri programmi d’inserimento lavorativo, così come l’uso strumentale per meri fini elettorali della disoccupazione. Non dimentichiamoci infine dell’arretratezza di alcune Università. Una volta completato il proprio ciclo di studi, ci si ritrova molto spesso nel gruppo dei disoccupati cronici: l’Università permette di crearsi una validissima cassetta degli attrezzi ma, il più delle volte, non vengono fornite le istruzioni su come utilizzare al meglio questi strumenti. Questa vuole essere una critica costruttiva, sia chiaro. Purtroppo, si è rimasti ancorati a una formazione di stampo teorico che non tiene conto della realtà. Sarebbe ideale favorire maggiormente opportunità di stage o laboratorio, soprattutto nelle facoltà umanistiche.
Paradossalmente la soluzione a tutti questi problemi sembrano essere proprio i “bamboccioni”.
Come spesso si dice, dalla crisi può scaturire l’opportunità.

Un’esperienza all’estero può rendere “hard” quelle che in origine erano delle semplici “soft” skills.
Per esempio, un’esperienza all’estero può essere utile per migliorare le nostre competenze linguistiche, rivelandosi la chiave di volta per accedere a posizioni lavorative che prima ci erano precluse. Affrontare sfide al di fuori della comfort zone può affinare le nostre capacità di problem solving.
Non è di certo tutto oro ciò che luccica. Alla fine, come qualsiasi impresa, dei rischi ci sono. Ad esempio scoprire che il Paese in cui si desiderava tanto trasferirsi non soddisfa le aspettative. Attenzione anche ai connazionali truffaldini o peggio ancora a siti web che millantano introiti multimilionari. Non di rado capita di dover firmare con l’amaro in bocca contratti di affitto o di lavoro che differiscono da quanto concordato prima del trasferimento.
Si parla spesso di fuga cervelli riferendosi a creature mitologiche che abbiano completato un certo tipo di formazione. In realtà, i cervelli sono anche quelli di un abilissimo artigiano costretto a spostare la sua attività in un altro Paese, di un laureato in sociologia che è stato appena assunto da un’importante multinazionale americana, così come quello di un diciottenne che ha appena completato un percorso professionale e sta per iniziare un apprendistato presso una rinomata casa automobilistica tedesca.
In tutti questi casi, il nostro Paese sta perdendo qualcosa.
L’expertise maturata all’estero rappresenta inoltre un ottimo biglietto da visita per chi decidesse, ad un certo punto, di far ritorno in Italia. Tutto quello che si sarà appreso, potrà essere utilizzato per rivitalizzare, rinnovare e (perché no?) migliorare il mondo del lavoro italiano, sia nel privato che nel pubblico.