Ieri sera mi annoiavo.
Scorrendo i film suggeriti da Netflix mi sono imbattuta in uno dei classici titoli accattivanti che mi fanno almeno venire voglia di leggere la trama. Mi sembrava interessante, perciò ho preso una coperta, mi sono piazzata comodamente sul divano e ho premuto play.
Comincio a guardare, sforzandomi di non essere annoiata.
Siamo in uno Stato con poco meno di 12 milioni di abitanti incastonato nell’Africa sud-orientale e circondato da altri 3 Stati. Non ci sono sbocchi sul mare e l’unica fonte d’acqua è costituita da un grande lago. Circa tre quarti della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno e l’aspettativa di vita per gli uomini è di 49 anni, per le donne di 51. (fonte Wikipedia)
Questo Stato si chiama Malawi. Non sapevo nulla di tutto questo.
Nonostante queste condizioni di base, una coppia di genitori ritiene che l’istruzione sia importante e si impegna per garantirla ai suoi figli. Trywell e Agnes vivono in povertà guadagnandosi da “vivere”, se così si può definire, facendo gli agricoltori. Sfruttano la stagione delle piogge per coltivare al meglio il loro terreno e mettono da parte quanto possibile dei loro guadagni. William, il loro secondo figlio, proprio grazie ai risparmi accumulati dai genitori comincia a frequentare la scuola del villaggio con gioia, con entusiasmo. Purtroppo, la siccità e la carestia si intromettono con violenza in una condizione già precaria e costringono il piccolo William, 14 anni, ad abbandonare la scuola poiché la sua famiglia non può permettersi di pagare la retta.
Comincio a provare un senso di tristezza.

Nessuno dei “nati fortunati” (coloro che vivono in Paesi sviluppati o comunque con un alto livello di qualità della vita) sa come ci si sente ad essere in 5 e a dover mangiare (poco) solo una volta al giorno, lavorando per tutta la giornata nei campi sotto il sole di un clima subtropicale. Scoppiano numerose rivolte anche a causa dei razionamenti del governo e la situazione diventa ancora più drammatica. William, che nonostante l’espulsione dalla scuola è riuscito ad avere accesso alla biblioteca, continua a leggere, a studiare, fino a progettare un mulino a vento col quale il suo villaggio può ricevere corrente elettrica e col quale, soprattutto, può alimentare una pompa d’acqua in grado di garantire un raccolto per tutto l’anno. Il suo progetto ha successo e William salva il villaggio. Tutto questo utilizzando materiali di scarto e rifiuti. Utilizza disperatamente tutto quello che trova, solo per ricavare un po’ di quell’acqua che noi “nati fortunati” possiamo comodamente ottenere (e sprecare) aprendo il rubinetto.
Penso al dono dell’acqua per un luogo così povero come l’Africa.
William oggi ha 32 anni, vive negli Stati Uniti e grazie a questa invenzione ha ottenuto una borsa di studio che gli sta consentendo di avere un futuro. Nonostante questo, la sua famiglia ha preferito rimanere nel Malawi.
Dal Malawi agli Stati Uniti. Dalla povertà quasi assoluta alla ricchezza più ostentata. Dal “solo quello che ci serve per non morire” al “dammene ancora”.
Penso a dove vivo, a che vita sto conducendo, a come sta la mia famiglia. Penso a come mi sentirei se mi ritrovassi al posto di William in Malawi, in condizioni atroci per me ma soprattutto per la mia famiglia, senza l’opportunità di costruirmi un futuro.
Nell’era della globalizzazione totale, ci sono ancora Paesi la cui storia passa nel dimenticatoio. E non sono Paesi sconosciuti dove la gente tutto sommato se la cava anche, ma Paesi fatti (nel senso più reale del termine) dai milioni di persone che ci vivono, persone costrette a sofferenze indicibili che nessun essere umano dovrebbe provare. Le immagini che vediamo in televisione tramite documentari o spot pubblicitari che tentano di raccogliere donazioni sono reali, non sono solo ricostruzioni, ma noi non siamo programmati per capirlo, perché siamo nati fortunati. Siamo nati in un Paese in cui possiamo prepararci da mangiare quello che vogliamo e quando vogliamo, possiamo proteggerci dalle temperature troppo calde o troppo fredde, possiamo studiare, possiamo fare un lavoro che ci piace. Siamo nati in un Paese dove diamo tutto per scontato.
La grande ingiustizia, per la quale non sappiamo mai chi incolpare, è ovviamente che nessuno può decidere in che città nascere, in quale momento e in che condizione.
Apro il pc e cerco alcune informazioni.
Siamo in un luogo con una popolazione di quasi 330 milioni di abitanti e confinante con due oceani. L’aspettativa di vita è di 82 anni per le donne e di 77 per gli uomini. Il limite minimo di retribuzione è di 7 dollari all’ora, in generale tra gli 8 e i 12 dollari, sempre all’ora.
In media il 40% del cibo viene sprecato e il 20% delle persone intervistate nell’ambito di una ricerca sulle abitudini alimentari ha riferito che “l’acqua è noiosa perché non sa di niente”. (fonti Wikipedia, Repubblica e SkyTg24)
Questo posto si chiama Stati Uniti.
Non ero a conoscenza di alcuni di questi dati.

Non so decidere se la più grande sfortuna di William Kamkwamba sia quella di essere nato in un Paese poverissimo in cui si deve imparare già da piccoli a dare importanza solo a ciò che conta davvero (il necessario per vivere, la famiglia, il bene della propria comunità) o se sia quella di ritrovarsi ora in uno dei tanti posti del mondo in cui tutto questo, per gran parte delle persone, non conta nulla.
Arrivo alla conclusione che “Il ragazzo che catturò il vento” non è solo un film tratto da una storia vera, è una ferita profonda che farà molta fatica a richiudersi da sola se nessuno, tra coloro che la possono curare, ne accetterà l’esistenza.
…e all’improvviso mi accorgo di non essere più annoiata.