This is why: quel razzismo che non lascia respirare

Quel 28 agosto 1963 sembra un giorno ormai lontano nella memoria, quando davanti al Lincoln Memorial di Washington Martin Luther King pronunciava il suo celebre “I have a dream”, auspicando che un giorno la popolazione afroamericana avrebbe potuto godere degli stessi diritti dei bianchi.

Il pastore protestante divenne simbolo di una lotta non violenta per i diritti civili della “black people”, grazie al suo carisma e una comunicazione potente.

Ciò che rimane impresso nella memoria, più delle parole, sono i momenti e la carica di pathos vissuta in quell’istante, talmente forte da trascinarsi per i decenni futuri.

Così, come quell’ “I have a dream” risuona ancora forte fra le pagine della storia mondiale, anche il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos alle olimpiadi di Città del Messico nel lontano 1968 si colloca di diritto fra quei momenti catartici di una lotta che si protrae fino ai giorni nostri.

Ed eccoci all’attualità: il 26 maggio le immagini della morte di George Floyd hanno fatto il giro del globo.

Nel video, ripreso da alcuni passanti, si vede un poliziotto bianco atterrare un uomo di colore, reo di aver opposto resistenza in seguito all’arresto per abuso di droghe.

“Non respiro, lasciatemi per piacere”, è l’agghiacciante grido di aiuto, ignorato come il latrato di un cane, mentre un poliziotto tiene premuto il ginocchio sulla testa dell’uomo.

La situazione si rivela drammatica quando, nel momento di ammanettarlo, risultano chiare le condizioni di salute critiche: Floyd morirà pochi minuti dopo in ambulanza.

L’ondata di sdegno fra le strade di Minneapolis travolge subito l’opinione pubblica nazionale e mondiale, anche grazie alla forte presa di posizione della star dell’NBA Lebron James, che sui social condivide una foto che ritrae il poliziotto affiancato all’ex quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick, ovviamente accomunati dalla stessa posa: inginocchiati.

Quella di Colin Kaepernick è un’altra storia che meriterebbe attenzione. Dopo essersi apertamente schierato a favore dei diritti della popolazione di colore, ora lotta contro l’oblio.

“Kap” iniziò a rifiutare il protocollo della NFL durante l’inno nazionale, preferendo inginocchiarsi piuttosto che mettere la mano sul cuore, lanciando così un segnale che pian piano iniziò a diffondersi fra altri giocatori di colore della lega.

La protesta durò fino alla fine del suo contratto coi 49ers, momento in cui la franchigia di San Francisco decise di non rinnovargli il contratto, lasciandolo di fatto senza squadra.

Nonostante la sua vittoria in tribunale con tanto di risarcimento, accusando le 32 franchigie di collusione per essersi alleate contro di lui, “Kap” continua a lottare per trovare una squadra che lo possa accogliere.

I cortei di Minneapolis e i cartelli “Black Lives Matter” o “I can’t breathe”, sono solo la punta dell’iceberg di una lotta che sembra non avere mai fine.

L’eco mediatica è sicuramente dovuta alla crudezza dei recenti avvenimenti, oltre che alla presa di posizione del “Re” che ha condiviso un’immagine che in poco tempo è diventata virale.

Purtroppo parliamo di eventi isolati, ma di “casi Floyd” negli USA se ne vedono quasi quotidianamente, eppure nessuno ne parla.

Risulta quindi fondamentale la figura di sportivi e celebrità che con il loro potere mediatico possono ora più che mai fare la differenza nella lotta ai diritti della popolazione di colore.

In fondo basta un tweet, una foto, un repost, affinché quelli che sembrano piccoli battiti di farfalla si possano trasformare nell’uragano di cui abbiamo bisogno, per spazzare via con decisione quel razzismo che ancora aleggia minaccioso.

Andrea Caenazzo
Andrea Caenazzo
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