Il Paese delle Emozioni di Filippo Viel

Nell’epoca in cui è sempre più diffusa l’abitudine di osservare la vita in maniera superficiale, esistono fortunatamente persone, ragazzi giovani, che con estrema delicatezza e consapevolezza ci fanno apprezzare attraverso occhi sempre diversi i dettagli più importanti. Una di queste persone è Filippo Viel…e oggi intraprendiamo insieme a lui un meraviglioso viaggio nel Paese delle Emozioni.

Ciao Filippo, per prima cosa ti ringraziamo di esserti reso disponibile per questa chiacchierata durante la quale ci parlerai un po’ della tua esperienza e di chi sei. Partiamo proprio da questo allora, chi è Filippo?

Filippo, prima di tutto, è un uomo profondamente innamorato della musica. Ho avuto la curiosità e l’istinto musicale già da molto giovane senza una spinta da parte di nessuno, all’inizio costruendo una batteria con quello che trovavo per casa. Quella curiosità che mi porto ancora dentro quando suono e scrivo oggi.

Attorno ai 6 anni ho ricevuto come regalo una chitarra, e da lì non l’ho più mollata di mano. Mi divertivo a cantare sopra vecchie cassette di musica popolare del nonno, storpiando le parole che non conoscevo o non riuscivo a pronunciare.
Dai 7 anni ho studiato chitarra classica e mi sono appassionato alla musica italiana, ad artisti come Battisti in primis. Più tardi, ascoltando qualche disco che girava per casa, mi sono avvicinato al rock. Ho suonato ininterrottamente fino alla maturità quando, dopo un anno di preparazione ad un approccio più jazzistico, ho deciso di iscrivermi in Conservatorio a Padova per cercare forse una vera svolta musicale nella vita.

Da ragazzo ho iniziato a trovarmi in sala prove con amici, e a fare i primi concerti suonando i classici del rock. Ma sentivo la necessità di dire la mia e di creare la mia musica. Come la maggior parte degli artisti ho scritto musica e testi per esigenze diverse, dalla voglia di fondere generi diversi e spesso lontani, e quindi di ricerca sonora, a quella di essenzialità assoluta per esprimere al massimo il messaggio della parola. Sono sicuro che ce ne saranno sempre di nuove. Credo che i musicisti si debbano sentire orgogliosi e nello stesso tempo fortunati di poter esprimersi con una lingua così potente.

Oggi mi sento un ragazzo di 25 anni per quanto riguarda la vita che racconto, un compositore per il fatto di poter scegliere come raccontarla, un chitarrista perché le mani a volte sostituiscono la voce, e un cantautore perché voglio mettermi in gioco.

A proposito di progetti, raccontaci dell’esperienza con i “DITE” e con i “Margot”, due gruppi che rappresentano perfettamente la tua capacità di affrontare più generi musicali pur mantenendo uno stile inconfondibile e del tutto personale.

DITE è un progetto nato con la voglia di scrivere senza porsi nessun vincolo. Partiti in due, io alla chitarra e Emil Bortoluzzi alla batteria, si è aggiunto poi Mattia Fistarol alla voce e Simone Giovinazzo al basso, con il quale già suonavo. La stesura dei brani partiva spesso da un’idea mia di chitarra o di Mattia, e poi veniva sviluppata in ogni dettaglio con gli altri. Scrivevamo molto in sala prove e ogni decisione veniva presa dalla band con un approccio perfezionista, come lo siamo tutti. Il processo di scrittura e l’arrangiamento dei pezzi andavano di pari passo. La somma dei nostri diversi stili e background ha portato ad un sound particolare e non sempre facilmente collocabile. La più delle volte come alternative e prog rock. Dopo il primo EP nel 2016 “An Explanation”, nel 2018 abbiamo fatto uscire “The Hollow Connection” con l’etichetta Nadir Music di Genova. Un disco nel quale c’è molto lavoro e cura dei dettagli, per questo ha avuto un bel riscontro, sia dal pubblico che dalla critica. Abbiamo avuto anche la possibilità di portarlo oltre il confine dell’Italia.

Margot invece è una band nata all’interno del Conservatorio, e quindi in un contesto jazzistico. Anche qui però c’era la voglia di staccarsi dal classico approccio al genere. Dopo la nascita, avvenuta per affrontare alcuni esami che necessitavano di suonare in gruppo, la sintonia musicale e personale ha portato a trovarsi a suonare insieme anche fuori dalla mura padovane. Passando poi diverse piazze del nord Italia. Io mi sono aggiunto al trio già esistente composto da Giorgia Canton al pianoforte e voce, Filippo Parisotto alla batteria e Maria Spezzati al contrabbasso, portando forse quel pizzico di pazzia in più e una vena blues nel sound.

Durante l’ultimo periodo di studi ci siamo appassionati a un artista in particolare, Charles Mingus. Abbiamo approfondito la sua scrittura e deciso di metterci la nostra firma arrangiando alcune sue composizioni. Giorgia ha fatto un lavoro magistrale scrivendo dei testi originali sulle melodie di Mingus, poi con la band abbiamo lavorato sulle scelte di arrangiamento. Questo lavoro ha portato alla decisione di andare in studio e registrare il disco “Margot plays Mingus”, uscito nel 2019.

In ogni progetto, o collaborazione in cui lavoro, cerco di dare quello che credo sia più adatto per la buona uscita del brano, senza per forza cercar di far sentire la mia presenza, perché so che comunque il mio stampo e gusto sono presenti nelle decisioni che prendo. Per questo nell’approccio che ho alla musica, prima del genere viene l’unicità e la bellezza. Non mi reputo un chitarrista straordinario, e neanche un bravo cantante, sto solo cercando il mio equilibrio restando me stesso. Forse questo risponde alla domanda del perché comunque si senta la mia zampa su quello che faccio. Poi ovviamente ogni musicista e compositore ha delle sonorità che preferisce, e un approccio tecnico che lo contraddistingue.

Ci dicevi anche che oltre alla pura esecuzione ti affascina molto anche l’aspetto dell’arrangiamento…

Sì, mi è sempre piaciuto cercare il giusto posto a tutto nei brani sui quali lavoro, o trovare la chiave giusta per farli funzionare, e quindi far arrivare nel modo migliore quello che vogliono esprimere. Questa componente era già presente nei DITE ma, durante gli studi a Padova, indirizzato all’inizio quasi per scherzo dai professori, mi sono avvicinato sempre di più all’arrangiamento, fino ad arrivare a presentare alla laurea una tesi sulle tecniche di arrangiamento jazz, dal titolo “un abito su misura”. Ovviamente in quel periodo ero in un contesto jazzistico, ma poi lo studio personale mi ha portato ad applicarmi anche in altri ambiti e situazioni, dal brano pop chitarra e voce alla grandezza di un’orchestra.

Il jazz ti ha quindi dato molte basi utili per la tua formazione musicale e per raggiungere il punto in cui ti trovi ora. Immagino ci siano degli artisti in particolare che ti hanno influenzato nella creazione di un tuo stile e che sia importante prendere in considerazione più persone, senza focalizzarsi solo su una personalità artistica in particolare. Cosa ne pensi?

Si sicuramente è stato molto importante per la mia formazione, e ho scelto il jazz come percorso di studi sperando proprio in questo. Sinceramente non perché all’epoca fossi un appassionato di jazz ma perché poteva darmi quello che mi serviva per crescere, sia sullo strumento che nelle conoscenze musicali. Quindi in quell’ambito non ho un vero riferimento preciso. Sono pienamente d’accordo con quello che dici per quanto riguarda le influenze, è proprio il tipo di studio che sto facendo ora. Scelgo un’artista alla volta e ne analizzo profondamente l’aspetto che reputo più utile per me. Per farti qualche esempio nell’ambito pop mi sono concentrato sull’uso della parola, sul significato, sul suono, e stesura dei testi di Niccolò Fabi, Elton John per quanto riguarda i movimenti armonici, mentre Ed Sheeran nella costruzione delle melodie. E in questo modo per altri artisti che ammiro del presente, come del passato. Ovviamente vanno assimilati e fatti propri solo per capirne i piccoli segreti, nascosti tante volte da tutto quello che sta attorno ad una canzone. Fare un lavoro del genere per cercar di imitarli non avrebbe senso. È inevitabile poi che nella scrittura di un brano ci siano all’interno degli elementi presenti negli ascolti fatti in quel periodo, ma è giusto così. Una volta assimilato, sarà un nuovo cassetto dove il cervello andrà a pescare la parola o la nota giusta se necessario.

La situazione che abbiamo vissuto (e stiamo vivendo ora, anche se in maniera più moderata), durante questo particolare periodo segnato dal Covid-19, è stata sicuramente difficile sotto molti aspetti. La musica ti ha aiutato? Se si, in che modo?

Questo ultimo periodo è stato davvero anomalo ma, per quanto mi riguarda musicalmente, si è rivelato molto produttivo. Ho scritto molto e ho avuto il tempo di fermarmi a riflettere e respirare, perché stavo lavorando tanto, e a ritmi alti. Allo stesso tempo sono stati anche i mesi successivi alla fine di un amore, e quindi la musica è stata davvero una grande amica con la quale sfogarmi, anche se è una frase sentita tante volte. Questo mi ha portato a scrivere in modo differente rispetto al solito, infatti molti brani sono nati al pianoforte e la parola fa da padrona di casa. Non perdendo però l’abitudine di scrivere di notte, quando tutto tace e sembra che, senza il sole, si fermi il tempo.

Da un paio d’anni hai deciso che volevi comunicare le tue idee e dire quello che pensavi in maniera diversa. Parlaci quindi del tuo progetto per il futuro e della scelta di cantare in italiano.

Sì sono circa due anni che ho deciso di scrivere in italiano. Ho sempre scritto principalmente la musica nelle canzoni, canticchiando a volte la melodia della voce dove poi altri avrebbero messo il testo. Ma sento di poter dire la mia anche nei testi, perché mi piace e ho sempre scritto versi in poesia, anche se slegati da un’idea musicale.
Ho iniziato a mettere da parte l’aspetto più tecnico sullo strumento e a concentrarmi sull’equilibrio tra il significato della parola, il suo suono e la melodia sulla quale viene appoggiata. Ovviamente tutto il lavoro fatto in questi anni mi permette di poter scegliere cosa voglio, e di non ritrovarmi in una ricerca al buio.

I progetti nel più vicino futuro vedranno quindi la parola in primo piano. Ho deciso di fare un primo disco da solita, un concept album di 10 brani scritti tra novembre 2019 e febbraio 2020, che racchiudono e raccontano l’evoluzione del mio stato d’animo in quel periodo difficile. Un lavoro molto intimo e personale, ma anche uno specchio per molte persone che, come me, hanno vissuto la perdita di un amore, ricordato attraverso alcuni flashback, fino alla consapevolezza di una nuova strada. Per quanto riguarda il modo con il quale presentare questo lavoro, ci sto ancora pensando. Le idee sono tante, spesso legate all’immagine e ad una storia da raccontare.

Da quando sarà possibile riprenderò a portare in giro le mie canzoni, cercando un approccio più personale con il pubblico, e rendendolo partecipe di come certe emozioni sono finite sul foglio. Quindi la veste dei brani sarà spesso solo la mia chitarra, o le mani appoggiate sul pianoforte. Ho tanta musica nuova da far sentire, e con lei tante cose da dire.

Grazie Filippo per il tuo contributo! E’ sempre emozionante confrontarsi con persone che amano la musica in questo modo!
Prima di salutarci ti lanciamo un’ultimissima domanda: perché anche tu ti senti un po’ Orange?

Perché ogni giorno metto tutto per fare quello che amo.

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Orange Romance Team
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