Nel “Dialogo della natura e di un islandese”, Leopardi rappresenta la natura come una donna gigantesca, avvolta da una bellezza inquietante. Perché la natura, secondo il poeta, può essere tanto affascinante quanto crudele, tanto che lei stessa dice:
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte […]
Tutto fa parte di un ciclo universale in cui la natura è totalmente indifferente all’uomo. Questa almeno è la visione leopardiana che, tuttavia, può essere estesa con le dovute cautele all’esperienza di ognuno di noi.

Perché solo quando l’uomo è messo davanti alla potenza della natura, in paesaggi estremi, riesce a toccare tutte le corde della sua anima, raggiungendo in una sorta di nirvana l’armonia con se stesso e una consapevolezza che non sarebbe mai emersa nella routine cittadina, fra le mille distrazioni e le comodità a cui siamo abituati.
Senza scomodare ulteriormente il poeta di Recanati, ho scelto di iniziare in questo modo perché anche io, nel mio piccolo, ho avuto modo di mettermi in gioco, provando emozioni a me sconosciute e sentendomi per la prima volta, da quando mi trovo nell’isola, veramente in uno stato di armonia col mondo esterno.
Scendiamo un po’ di livello, e avviciniamoci ai “poeti urbani” che popolano il panorama musicale indie italiano; c’è una canzone di Giò Evan che mi piace molto e si chiama “Credo in me esteso”.
Poche volte nella vita riusciamo a sentirci parte di qualcosa di più grande, piccoli protagonisti di un grande dipinto che è il mondo in cui viviamo; quelle rare volte sono proprio i momenti in cui ci troviamo al cospetto della natura, soli e coi nostri limiti umani.
“Non bisogna mai seguire il vento, bisogna diventare il vento”, recita la canzone: ebbene, io penso di aver capito cosa vuol dire essere vento nella mia piccola ma intensa avventura per i deserti vulcanici di Lanzarote.

La mia avventura inizia quando, un giorno, decido di noleggiare un’auto per raggiungere velocemente quei pochi posti che mi mancavano da vedere nell’isola, prima del mio ritorno in Italia.
Dopo essermi informato dai proprietari del mio Airbnb, una coppia di signori locali davvero molto simpatica e disponibile, esco a piedi diretto al primo Alquiler de coche indicato, quando, a una rotonda, mi imbatto in un negozio di bici a noleggio, solo bici, nient’altro.
Non ci ho pensato due volte, sono una persona a cui piacciono le sfide, e l’idea di potermi muovere potendo contare solo sulle mie forze mi elettrizzava, in fondo un’avventura era tutto ciò che stavo cercando.
Inutile dire che la reazione dei proprietari di casa al mio rientro fu alquanto sorpresa e divertita, ero uscito per noleggiare un’auto e me ne torno con una bicicletta, neanche l’avevo mai raggiunto l’aeroporto.
Lanzarote è un’isola vulcanica, caratterizzata da paesaggi desertici mozzafiato e continui saliscendi che rendono qualsiasi spostamento abbastanza difficoltoso, senza contare il sole cocente e un vento forte e costante che la rendono meta di appassionati di surf e wind-surf.

Il mio obiettivo era chiaro, raggiungere il famoso Jardin de Cactus, opera dell’artista locale Cesar Manrique, caratterizzato dalla presenza di oltre 4500 esemplari di piante inserite in terrazzamenti all’interno di un anfiteatro che va a creare un colpo d’occhio notevole per i visitatori.
“Hombre, mira que va a ser muy duro, está muy lejos”. “È troppo lontano”, questa è stata la prima reazione di Pedro, il proprietario di casa, quando gli dissi le mie intenzioni.
In un primo momento ammetto di essermi sentito scoraggiato, in fondo, avevo guardato su Google Maps e una distanza di 25 km mi sembrava facilmente percorribile, pur non essendo troppo allenato con la bicicletta.
Poi però, in me nacque il senso della sfida, la volontà di mettermi alla prova, in fondo ero da solo, nessuno mi avrebbe giudicato e avrei potuto gestire i miei ritmi come volevo, quindi presi la decisione: il mattino dopo sarei partito.
Dopo un’abbondante colazione, un rapido studio del percorso su Google e una generosa scorta d’acqua, partii alle 9 sotto un cielo ancora grigio e con il vento in faccia.

Il primo tratto di strada era semplice, dovevo solo costeggiare il lungomare in una ciclabile molto ampia, l’unica difficoltà era il vento che, soffiando in senso contrario alla mia direzione, mi costringeva a uno sforzo extra.
A quell’ora non c’era ancora nessuno in giro, salvo qualche corridore, l’unico rumore era il suono delle onde che si infrangevano sugli scogli neri.
In poco tempo arrivai ad Arrecife, il capoluogo dell’Isola, l’unico centro urbano in un territorio fatto di pueblos sparsi qua e là fra chilometri di lande desolate.
Superata Arrecife era la volta di Costa Teguise, avrei allungato un po’ la strada, ma almeno sarei passato per la costa, evitando la trafficata Carretera Principal.
Passai per Las Caletas, un piccolo pueblo caratterizzato da casette adornate con fiori viola, in un bellissimo contrasto coi muri bianchi, caratteristica di tutte le abitazioni dell’isola.

Per strada c’era solo un gruppo di bambini che giocava a pallone sotto gli occhi di due ragazze, così ne approfittai per chiedere a una delle due di scattarmi una foto per immortalare il mio percorso.
Dietro di me c’era una coppia di pescatori, non so se fossero effettivamente marito e moglie, ma mi piace pensare che fosse così: sereni. Una in piedi, l’altro seduto su uno scoglio, ad aspettare che qualcosa abbocchi all’amo, io l’ho trovato molto poetico.

Dopo una breve pausa per bere e scattare qualche foto, riparto alla volta di Costa Teguise: qui il sentiero inizia a essere più duro, perché sarei dovuto passare per uno sterrato completamente in salita. Ammetto verso la fine di aver mollato un attimo e aver concluso la salita con la bici a mano, poco male, mi ero riagganciato alla strada principale.
Fra una serie di discese e salite fatte con fatica, raggiunsi anche Costa Teguise; nel frattempo era spuntato fuori il sole e anche le spiagge iniziavano a popolarsi.
Il lungomare era molto carino, con una pista ciclabile un po’ più ridotta rispetto a quella che mi aveva portato fino ad Arrecife, ma altrettanto piacevole: sarebbero stati gli ultimi chilometri di relax.
Alla fine della ciclabile mi trovai di fronte a una scogliera, mentre sulla sinistra c’era una lunga salita sterrata in cui una squadra di atletica stava facendo delle ripetute sotto gli occhi del loro allenatore.

Il mio piano era quello di tenermi sempre la costa sulla destra, finché non mi sarei ricongiunto nuovamente alla Carretera Principal per raggiungere il Jardin de Cactus che si trovava più all’interno.
Il mio telefono era in risparmio batteria, volevo tenerlo per le emergenze, e il GPS avrebbe consumato un sacco, per non contare le foto e i video che ogni tanto facevo, così tornai alle vecchie abitudini, chiedendo indicazioni ai passanti.
L’allenatore, un ragazzo, mi indicò di proseguire per quella salita finché non avrei trovato un piccolo sentiero che mi avrebbe fatto proseguire fino alla strada principale.
Lo ringraziai e proseguii secondo le indicazioni, in poco tempo trovai anche il sentiero: spettacolare ma sicuramente non agevole.
Grosse pietre alternate a sabbia che facevano frenare improvvisamente la mia bici, non esattamente una mountain bike, ma un ibrido con una city bike, scelta per percorrere con maggior facilità i tratti sull’asfalto.

Nonostante il vento non accennasse a diminuire, ormai non mi trovavo più vicino alla costa e il sole iniziava a essere davvero forte, tanto che mi trovai costretto a fermarmi nuovamente per mettere un altro strato di protezione solare sul collo.
La fatica iniziava a farsi sentire, ma il paesaggio era tanto spettacolare quanto surreale, ero in mezzo al nulla e circondato da crateri spenti, immerso nel silenzio.
Mi fermai ancora per guardarmi indietro, quasi fossi un cowboy in sella al suo destriero dopo una lunga cavalcata. La mia cavalcata non era ancora finita, ma dentro di me sentii un’energia nuova, in contrasto con gli sforzi fisici; ero stanco sì, assetato e avevo ancora poca acqua, ma sentivo che stavo facendo qualcosa che per me aveva un significato più profondo.
Conoscere i propri limiti è una qualità che molti sottovalutano, perché il rischio è sempre quello di voler “strafare” oppure, al contrario, fare meno di ciò che si può per essere sicuri di non sbagliare, rimanendo nella propria comfort zone.
La mia comfort zone è sempre stata quella di cercare di fare cose che conoscevo, che sapevo di poter fare bene e in cui non mi sarei trovato troppo in difficoltà.
Scegliendo la bicicletta quel giorno, ho fatto il primo passo verso la consapevolezza dei miei limiti, né più né meno.

Scegliendo di muovermi in bicicletta ho voluto dare un segnale al mio corpo, che avevo bisogno di lui, che non mi dovevo rilassare troppo. Ho voluto dare anche un segnale a me stesso, perché uscire dalla propria comfort zone aiuta a crescere.
Nella mia vita. Ho sempre fatto sport, amo andare a camminare in montagna e la fatica non mi spaventa, eppure mai come quel giorno la mia psiche è stata messa alla prova, non tanto dagli sforzi a cui costringevo il mio fisico appesantito dalla quarantena, quanto dai dubbi che puntualmente si insinuavano in me sulla bontà di una decisione così avventata.
Sono arrivato alla conclusione che, i limiti, sono spesso dei muri che crea la nostra mente e che, a volte, bisogna seguire l’istinto e rischiare, altrimenti si rimane per sempre intrappolati in noi stessi.
Ebbene, dopo mille salite, qualche pausa per bere e rimettere a posto la catena della bici che ogni tanto cadeva per via delle continue sollecitazioni del terreno, arrivai alla strada principale: da lì sarebbero stati solo altri 6 km per raggiungere la mia meta.

La visione di un piccolo bar mi illuminò gli occhi; le riserve d’acqua scarseggiavano e sentivo un estremo bisogno di zuccheri. Così entrai per comprare una bottiglia d’acqua naturale, un succo di frutta e una barretta di cioccolato, ne approfittai anche per chiedere indicazioni sulla strada. Scoprii con sorpresa che ero molto più vicino di quanto immaginassi.
Infatti, inforcata nuovamente la sella della mia bicicletta, dopo qualche chilometro, ecco in lontananza il mulino che sovrastava il Jardin de Cactus. L’avevo visto in foto e non potevo sbagliarmi, ero quasi commosso: ero arrivato.

La gioia di poter dire “ce l’ho fatta” era pari solo alla grinta iniziale di quando Pedro mi ripeteva che sarebbe stato molto difficile arrivare.
Conoscevo i miei limiti, sapevo che avrei potuto farcela con le mie gambe e che quando si è messi alla prova, in un ambiente estremo, ognuno di noi riesce a tirare fuori tutto il carattere e la determinazione.
Non sono un ciclista, la bici la uso raramente e sono sempre stato automobile-dipendente, ma in questa breve esperienza ho imparato il piacere del viaggiare lento, ho capito cosa significa raggiungere una meta con le mie forze, sfidando i limiti e contemplando il panorama che cambia, lentamente.

Ho imparato a osservare ogni curva, ogni cambiamento del terreno, ogni pietra che dovevo evitare con le ruote.
Ho imparato ad amare anche la salita, perché poi scendere è un divertimento pazzesco.
Ho imparato a rispettare la natura, perché solo lei sa metterti alla prova veramente, senza chiedere nulla in cambio.

Ho imparato a non seguire il vento, perché a volte ti soffia in faccia, altre volte ti spinge in avanti dandoti la sensazione di volare, l’importante è seguire un obiettivo, ovunque esso sia.
Perché il vento siamo noi. Il vento è chi decide di non fermarsi davanti a un “non ce la farai”, perché sa che conta di più un “non mollare”.
Il vento se ne frega di cosa fanno gli altri, perché sa che soffierà in ogni caso, nella sua direzione, sempre.
