Oggi dopo anni ho rimesso i piedi su uno skate, un Ridge stile cruiser, una tavola in plastica color pastello, come andava in voga negli anni ’70.

Da bambino mi avevano regalato uno skate classico di legno per i miei 8 anni. Ricordo che lo usavo con i miei amichetti sulle discese, appoggiandomi prono con la pancia sulla tavola, oppure in due, seduti, con il terzo che spingeva da dietro, come fosse un bob sulla neve.
Non avevo mai provato a mettermi in piedi, troppa paura di cadere, di farmi male, di non essere in grado di andare forte “come i grandi”.
Gli anni poi sono passati e, crescendo, quel vecchio skate in legno è rimasto in garage, a riempirsi di polvere, fino a sparire “magicamente” sommerso da mille altre cose.
Eppure la tavola mi è sempre rimasta come una di quelle missioni fatte a metà, come quando in sala giochi finisci i gettoni proprio quando sei di fronte al mostro finale, l’ultimo livello, quello tanto agognato e frutto di impegno e concentrazione, circondato da un pubblico adorante.
Ve la ricordate “Sk8er boi” di Avril Lavigne? Sicuramente i ragazzi della mia generazione, quelli nati nei primi anni ’90, avranno ancora in mente le note spensierate cantate da quella teenager canadese che andava affermandosi nella scena pop di inizio millennio.
Per me quella canzone è stata come un memento, un ricordo sopito nei meandri del tempo che riaffiorava. “Potevi essere tu quello skater Andrea”, se vabbé direte voi, e in effetti “se vabbé” era proprio la risposta che mi davo sempre, quando ho abbandonato definitivamente l’idea di essere quello skater per provare a diventare un cestista.
Ma il discorso si fa più complesso, quando già ventenne, in Erasmus eccolo che ritorna: ancora lo skate, come un fantasma del passato, un sogno infranto, una possibilità sprecata.
Perché quando cresciamo abbiamo l’istinto di vedere alcune cose come ormai passate, treni ormai partiti perché “certe cose o le impari da ragazzino o mai più”.
Ma chi l’ha detto? Ci sono delle istruzioni scritte da qualche parte? C’è forse una scadenza ai sogni?

Veder sfrecciare i miei amici sul lungomare con quei bellissimi skate colorati mi ha fatto tornare di colpo ragazzino, facendomi sorgere una semplice domanda; cosa mi ha fermato?
La risposta era altrettanto semplice quanto immediata: la paura.
Ma questa è una lezione che mi ha dato lo skate che si può applicare in tanti altri aspetti della nostra quotidianità.
Perché quante volte ci siamo fermati davanti a un ostacolo semplicemente perché avevamo paura di fallire? In fondo fallire e cadere sono esattamente la stessa cosa, ed entrambe hanno una conseguenza: rialzarsi.
Sono state scritte pagine e pagine, aforismi sprecati: “non è importante quante volte cadi ma quante volte sarai in grado di rialzarti”.

A parole è semplice, ma quando c’è di mezzo la paura? Non è forse questo uno degli istinti ancestrali più forti e misteriosi dell’uomo?
Perché la paura può salvare, ma può anche precludere molte possibilità.
Ognuno di noi ha qualche paura, alcune più profonde, altre sono trascurabili, ma ci sono.
Arriva un momento in cui ognuno di noi è chiamato a fare una scelta: rischiare o no?
Un esempio, visto che ci sono dentro, viene proprio dal mondo del lavoro: provare a mettersi in proprio. Abbandonare le certezze del lavoratore dipendente, con stipendio fisso, straordinari, bonus e ferie pagate, e provare a realzizzare il proprio sogno, non lavorare per realizzare quello di qualcun altro.

Certo, le possibilità di “cadere” ci sono, come sullo skate, ma vuoi mettere il brivido che ti resta quando sfrecci sull’asfalto?
Il mondo visto di sfuggita è sempre più bello, noi corriamo e lui corre con noi, perché finalmente siamo noi a decidere la direzione. I nostri sogni prendono forma, può esserci qualche buca certo, ma con una piccola deviazione la rotta non cambia. Ci possono essere delle cadute, ma non possono essere viste anche come lo scotto da pagare per imparare ad andare ancora più forte?
Sono arrivato alla conclusione che, qualunque sia il nostro obiettivo, è importante conoscerne i rischi, pesarli, proteggersi ma accettarli. Solo così possiamo raggiungerli, altrimenti risuoneranno in noi negli anni come quella canzone che scava nei ricordi e trova solo rimpianti.
Non è mai troppo tardi per iniziare, il momento migliore è sempre dietro l’angolo.
Così, oggi, quando ho appoggiato il mio piede sinistro sulla tavola (rigorosamente “orange”), ripensando a tutto questo ho sorriso e, con una spinta leggera, sono partito.

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