CAPITOLO II
«Vedi Vincent, non solo il tempo è relativo, anche la nostra percezione dello spazio in cui ci muoviamo» disse l’uomo incappucciato «tu ora sei qui, ma potresti essere ovunque nel mondo per un’altra persona, mi segui?».
L’uomo incappucciato tese una ruvida mano al ragazzo, che in tutta risposta fissò l’individuo con disappunto, quasi non volesse accettare non solo quella verità, ma tutta la sua esistenza.
Come poteva credergli? La sua vita al Parnaso era stata tutta una menzogna? Chi era costui per togliere quel magico velo che separava le ambizioni di un giovane musicista dalla cruda realtà?
Senza dire una parola voltò le spalle alla figura incappucciata, dirigendosi con decisione al portale d’uscita della stazione.
Quell’uomo, così misterioso e allo stesso tempo etereo aveva pronunciato le sue ultime parole prima di confondersi nuovamente tra folla, e tra il forte sibilo dei binari virtuali che copriva ogni suono distinguibile.
La grigia visuale della città era quanto di più distante ci fosse dal luogo da cui Vincent proveniva; non pioveva ma il cielo non prometteva nulla di buono.
Quel ragazzo, così alto da apparire goffo in alcune sue movenze, si distingueva tra i passanti che rincorrevano l’ultimo treno veloce per la capitale. Aveva capelli scuri, mossi, spettinati al punto tale da dare l’impressione di essere qualcosa di studiato, come se avesse passato ore davanti allo specchio per trovare quell’esatto contrasto fra i riccioli che si appoggiavano sulle spalle e la leggera frangia totalmente asimmetrica.
Gli spessi occhiali, appannati, nascondevano due occhi profondi, scuri come la pece ma privi di qualsiasi espressività, come se fossero stati svuotati di ogni energia.
Un impermeabile beige, una cravatta blu scuro, perfettamente abbinata all’elegante vestito, e delle sobrie scarpe nere, completavano la figura di uno dei passeggeri più singolari che si fossero mai visti in quella città da anni. Soprattutto per il suo curioso fardello: la custodia rigida di un violoncello.
Gli sguardi dei passanti tuttavia rimanevano persi nel loro macro-mondo, un mondo a cui Vincent era stato bruscamente introdotto da quel misterioso uomo incappucciato.
Ancora stentava a credere che quello che aveva sentito fosse vero, era tutto talmente assurdo in fondo, eppure il primo approccio al mondo esterno sembrava voler dar credito alle parole dell’uomo.
In fondo al lungo viale che si apriva di fronte alla stazione si intravedevano i monti, era lì che aveva lasciato tutto ciò in cui credeva, tutte le sue convinzioni appartenevano al passato, lassù nel Parnaso, dove aveva imparato a suonare sublimemente il violoncello.
Quest’ultimo era per Vincent non solo una continuazione naturale dei suoi arti ma anche una copia esatta di se stesso in versione lignea.
Nessuno meglio di quel ragazzo, che era cresciuto ai margini del bosco, poteva apprezzare la diversa tipologia di legni che componevano uno strumento così potente e umile al tempo stesso. Aprendo la custodia poteva distinguere le diverse sfumature cromatiche che si creavano nel suo violoncello: ebano, acero, palissandro, abete, bosso. Tutto gli ricordava gli alberi dei boschi del Parnaso, con la loro varietà di tronchi così uguali eppure così differenti tra loro.
La mano sinistra si era ormai abituata alla superficie lineare del manico grazie alla quale era diventato semplice appoggiare il pollice e utilizzarlo come punto fermo per sfiorare le corde con le dita regolandole con la giusta pressione. Nel mentre il braccio destro aveva imparato a muovere l’arco con grazia e consapevolezza, lasciando rilassata la spalla e dando voce al suo canto interiore.
Gli alti palazzi provocavano in lui una malinconia intrisa di speranza per un futuro quanto mai incerto. Aveva una missione da compiere, raggiungere il contatto il prima possibile per poi tornare nel Parnaso cercando di limitare al minimo indispensabile i contatti con la popolazione civile.
Aveva previsto ogni cosa, era stato istruito su ogni spostamento e comportamento da adottare in quell’ambiente ostile e così distante da casa sua.
Perché il Parnaso era ormai casa sua, sebbene non fosse originario di quelle montagne, i suoi genitori per quanto sapeva vivevano nella capitale, o forse no, era passato così tanto tempo che quasi non ricordava più i loro volti.
Aveva appena 5 anni quando iniziò a frequentare la Scuola, e da allora quei boschi, il Cubo e le sue stanze dai soffitti alti come le cime che lo nascondevano, diventarono casa sua.
Il cielo era reale, non come quella vaga foschia che circondava la città in cui era semplice spettatore non pagante, spettatore di uno spettacolo che non si aspettava di vedere, se non nella sua immaginazione durante il racconto, così dettagliato, dell’uomo incappucciato.
Vincent ancora stentava a credere che ci fosse una divisione così netta da mondo fisico e mondo percepito dai sui abitanti: si sentiva il primo uomo sulla Luna, Cristoforo Colombo che poggia i suoi stivali bagnati sul suolo di San Salvador, un bambino che vede per la prima volta il fuoco.
Eccitazione e sgomento, questi i sentimenti che si facevano largo nel petto di quel giovane musicista dagli occhi tristi.
L’autobus numero 75 faceva capolino in fondo alla via, silenzioso e veloce, come le persone circostanti, un silenzio surreale, rotto ogni tanto solo dal fruscio dei binari virtuali e dagli ologrammi pubblicitari che cambiavano slogan.
«Psychonet 5.0: cambia prospettiva» recitava uno dei tanti «così esiste veramente questo Psychonet» pensò fra sé e sé Vincent, aggiustando leggermente il nodo alla cravatta.
Dopo qualche secondo l’ologramma cambiò nuovamente, era diverso da tutti gli altri, aveva qualcosa che attirava l’attenzione, come se fosse fuori luogo, ma senza risultare invasivo:
“Siamo atomi infiniti
in attesa di collidere,
siamo attimi infiniti
che non riescono a decidere”.
Il 75 nel frattempo si era fermato con una brusca frenata per far scendere una giovane ragazza dai capelli corvini.
Scendendo dal bus Vincent si accorse della caduta di un pupazzetto dal suo zaino, stava per avvisarla quando la stessa ritornò sui suoi passi per raccogliere quello che sembrava un cimelio prezioso.
Nel mentre, uno strano ciondolo arancione al collo della ragazza catturò la sua attenzione, più della lunga sciarpa turchese che quasi toccava terra, più del cappotto almeno una taglia troppo grande ma portato con estrema naturalezza da quella giovane passeggera.
Non sembrava qualcosa di prezioso, nemmeno un ciondolo tanto antico, era poco più di bigiotteria, ma di un colore unico quanto raro di quei tempi, nemmeno nel Parnaso c’era più traccia di quei caratteri cromatici. Eppure rievocò in lui delle reminiscenze del passato.
Dei flash improvvisi affiorarono davanti ai suo occhi, ma cercò di non farci caso e salì prima che le porte si chiudessero con un rumore secco, per ripartire alla consueta velocità.
I posti a sedere erano tutti occupati, tranne un sedile vicino al finestrino, a fianco di una curiosa signora con un lungo vestito lilla e una strana valigetta a forma di cubo dello stesso colore del ciondolo al collo della ragazza scesa poco prima.
Era quasi sicuro che quel colore fosse lo stesso che aveva intravisto nei pressi della stazione, poco prima di salire sul 75.
Una volta appoggiato il suo prezioso strumento nello scompartimento per i bagagli ingombranti in fondo al bus, fra le occhiate perse e inquisitorie di alcuni ragazzi, si accomodò vicino all’anziana signora dal vestito lilla.
Quest’ultima quasi non si accorse della presenza del ragazzo. Una volta seduto, Vincent non potè fare a meno di notare dei lunghi cavi che partivano dalla strana valigetta cubica e si andavano a perdere nelle pieghe del vestito della donna, all’altezza del costato.
«È tutto così assurdo» continuava a pensare mentre il mezzo sfrecciava fra gli alti palazzi lungo i binari virtuali.
Ogni tanto si girava per controllare il suo violoncello «chissà se qui funziona». Stava perdendo ogni certezza, il vecchio alla stazione lo aveva messo davanti a un bivio: accettare la nuova realtà (o irrealtà) oppure tornare nel Parnaso e vivere come sempre?
E se anche quella vita fosse stata solo un’illusione?
Questi dubbi tormentavano il giovane musicista, anche se non poteva fare a meno di pensare a quel colore che aveva, anche solo per qualche secondo, regalato una flebile speranza in quel mondo grigio e spento.
Il 75 si fermò nuovamente, questa volta non c’era nessuno ad attendere alla fermata, in compenso si alzò la signora accanto a lui che, con un gesto impercettibile, richiamò l’attenzione di Vincent per scendere.
Dopo qualche secondo l’autobus ripartì, c’era solo un timido raggio di sole che sfidava gli spessi finestrini del 75 e si andava ad appoggiare sul sedile lasciato vuoto dalla signora dal vestito lilla.
«Non ti ho dimenticato, Sole» disse Vincent sorridendo.