CAPITOLO IV

“Distretto numero 7, ripartenza in 15 secondi”; la voce metallica dell’altoparlante risvegliò Vincent dal torpore del silenzio del bus. Facendosi largo tra i ragazzi in fondo al bus recuperò il suo prezioso violoncello, per poi scendere dal retro, fra le silenziose imprecazioni delle signore che stavano per salire sul mezzo. 

Il distretto numero 7 era così diverso dal piazzale della Stazione e dai palazzi che la circondavano: le case erano più basse, con tetti a cupola di fiber-cristallo, una speciale lega che ha la peculiarità di assorbire i pochi raggi di sole che passavano nella cortina di smog cittadino, per convertirli in energia pulita per le case. 
Anche al Cubo ne erano provvisti, anche se lì le giornate erano molto più luminose; a Vincent tornò subito in mente la calda atmosfera della sua sala di registrazione, in cui i raggi solari convogliavano in un prisma di luci blu e indaco. 

Se chiudeva gli occhi riusciva quasi a sentire l’inconfondibile profumo di cannella e rosa selvatica delle stanze del Cubo, in cui le arti si sprigionavano in un trionfo di colori, suoni eterei e mondi lontani.  
Lontani come il mondo in cui era piombato, suo malgrado costretto da qualcosa di più grande di lui, di più grande del Parnaso stesso. Ed ora era arrivato il momento per Vincent di affrontare i suoi demoni e guardare in faccia l’irrealtà del mondo reale. 

Era quasi un controsenso pensarlo, eppure il suo piccolo cosmo in cui si era rifugiato nei primi anni di vita era quanto di più reale ci potesse essere, pur con tutti i limiti della segretezza a cui erano costretti gli artisti fra le accoglienti mura del Cubo. 

Realtà ed illusione, due opposti che col tempo erano finite per confondersi l’un l’altra, fagocitando immaginazione, creatività, arte e tutto ciò che rimaneva dell’espressione dell’individualità di quegli strani esseri che faticava a chiamare ancora umani. 

In fondo Vincent era sempre stato uno all’antica, non abusava dei comfort offerti dalla tecnologia di cui anche al Parnaso erano provvisti, sapeva apprezzare le opere dei tempi passati per contaminarle con le sensazioni e i linguaggi di quel secolo. 

L’unico sfizio che si era concesso era un paio di chip auricolari con cui poter ascoltare la sua libreria musicale da remoto, annullando i rumori urbani in un’esperienza totalizzante. Si trattava di dispositivi di almeno un paio di generazioni precedenti alla neuro-music, ed erano l’ultimo baluardo fisico dell’ascolto di musica tradizionale. 

Così, mentre percorreva a piedi il ripido viale del Distretto numero 7, i suoi pensieri vagavano come le nuvole del brano di Einaudi che stava ascoltando. 
“Nuvole Bianche” era una di quelle canzoni che avrebbe voluto comporre lui: non era la perfezione raggiunta da Beethoven o dalle arie di Bach che tanto amava, ma racchiudeva l’anima di tempi non troppo lontani in cui la musica stava lentamente sfiorendo. 

Ma era uno sfiorire romantico, triste sì, malinconico, ma tremendamente romantico. Come quando sfiorava dolcemente le corde del suo violoncello con il suo arco, per suonare l’ultima nota di una canzone senza dedica, ma piena di significato. 
Come l’ultima rosa colta dal giardino del Parnaso prima di un temporale estivo, come un fiocco di neve che si poggia sulla finestra la mattina del primo dell’anno, quando la festa è finita, e rimangono solo bicchieri vuoti e cocci di bottiglie. 

Questo e molto altro era per Vincent riascoltare quel brano, così poco attuale eppure così vicino alle sensazioni che provava guardando il cielo grigio del mondo in cui era nato ma a cui non sentiva di appartenere, non più. 

“Millennium”, così recitava l’insegna luminosa fuori da quello che sembrava un vecchio capannone abbandonato, evidentemente ridipinto da poco con un chiassoso viola ciclamino. 

Le porte automatiche si aprirono non appena Vincent si avvicinò all’ingresso con una suadente voce femminile che dagli altoparlanti lo accolse con un “Benvenuto al Millennium Café”. 

A quell’ora il locale non era molto affollato, ma l’interno si rivelava molto più interessante e curato dell’esterno, che ricordava uno di quei club post-industriali dove una volta suonavano gruppi cyber-rock alternativi. 

Le pareti erano tappezzate di quadri digitali raffiguranti jazzisti e frontman di gruppi musicali del Novecento: si alternavano artisti del calibro di Louis Armstrong, Kurt Cobain, Thelonious Monk, Freddie Mercury, John Coltrane e Mick Jagger. Tutti sembrava fissassero l’ingresso del giovane musicista con il suo fedele violoncello appresso, quasi intimidito da quell’atmosfera così inaspettatamente familiare e vicina al suo mondo. 

«Buongiorno signore, cosa le posso portare?» chiese un cameriere vestito di bianco con un curioso papillon dello stesso colore dell’esterno del locale, quel chiassosissimo viola ciclamino che anche lì dentro sembrava sfidare l’eleganza e il minimalismo del locale. 

I tavolini bianchi, perfettamente quadrati erano disposti a scacchiera, insieme a delle sedie trasparenti, cubiche e senza schienale; non davano l’impressione si essere molto comode ma tutto lì dentro trasmetteva un senso di simmetria davvero confortante. 

«Prendo un caffè ginseng, grazie» rispose cordialmente Vincent. 
«Prego, si accomodi, arriva subito» disse il giovane cameriere indicando uno dei tanti tavolini liberi. 

In sottofondo c’era Young and Foolish di di Bill Evans, Vincent non lo amava particolarmente ma sapeva apprezzarne l’eleganza del suo piano e ne riconosceva l’innovazione nel jazz grazie al suo modo di rivoluzionare la fusione fra più strumenti. 

Le note leggere del piano di Bill Evans catapultarono nuovamente Vincent nella realtà, nel motivo per cui era in quel bar ad aspettare il misterioso contatto che gli avevano fornito al Parnaso. 
Il suo mondo era in pericolo, l’arte era in pericolo; dal migliaio di artisti che popolavano il Cubo, erano rimasti un centinaio, e quel che era peggio era la mancanza assoluta di nuove leve. 

La generazione delta, così era stata ribattezzata, mancava totalmente all’appello e il testimone artistico rischiava di rimanere ancorato agli ultimi romantici che ancora credevano nella favola del Parnaso. 

Il governo, con la scusa di questo imprevisto buco generazionale, aveva tagliato i fondi al Cubo, preferendo investire nei corsi da remoto di Psychonet, che nel frattempo stava aumentando le risorse anche in campo artistico, oltre che scientifico. 

«Suppongo sia tutta colpa di Psychonet se ora mi trovo qui» pensò Vincent sorseggiando il caffè che nel frattempo era emerso da un foro al centro del tavolo. 
Non sapeva ancora molto di questa tecnologia, il nome di Psychonet l’aveva sentito per la prima volta dall’uomo incappucciato poche ore prima in Stazione. Il resto lo aveva appreso seguendo negli ultimi giorni le riunioni del Consiglio Generale del Parnaso, a cui era stato invitato a partecipare prima di partire per la sua missione. 

Questa missione, tuttavia, rimaneva ancora piuttosto vaga agli occhi del giovane musicista. Non c’era uno scopo definito, tutto ciò che aveva era l’indirizzo di quel caffè, un’ora e una data; nessun volto, nessun nome. Sapeva solo che lo avrebbero aiutato in qualche modo. 

«Mezz’ora di ritardo», pensò fissando l’orologio sopra il bancone del bar. Il contatto non era ancora arrivato e Vincent iniziava a spazientirsi, così, per ingannare il tempo, tirò fuori dalla tasca un piccolo bloc-notes e iniziò a scrivere: 

Ho fatto colazione con i miei errori, 
mi sono lavato il viso con gli sbagli, 
asciugato con le cadute 
e vestito con i rimpianti. 

Sono uscito di casa senza ombrello 
perché piovevano ricordi, 
mi sono bagnato di passato 
e sono tornato asciutto”

Vincent non era un poeta, al Parnaso ne erano presenti di molto più bravi di lui, ma ogni tanto, per diletto, si divertiva a buttare giù qualche riga per dare una forma diversa alle sue emozioni. 

“Benvenuto al Millennium Café” disse nuovamente la voce femminile all’ingresso. Era appena entrato un ragazzo, sulla ventina, con un lungo cappotto grigio e una sciarpa bordò intorno al collo. 

«Una tisana al gelsomino per cortesia» disse al cameriere. 

«Vincent?» continuò il ragazzo dirigendosi al tavolino in cui era seduto quest’ultimo. 

«Permetti?» chiese educatamente mentre spostava l’ingombrante custodia del violoncello appoggiata su una delle sedie. 

«Prego» rispose Vincent mentre indagava da dietro gli occhiali il nuovo arrivato. 

«Perdonami il ritardo, vengo dalla Stazione» disse il ragazzo. 

«Nessun problema» rispose Vincent «e tu saresti…» 

«Alan, molto piacere» lo interruppe tendendo la mano con un enorme sorriso. «Perdonami se vado subito al sodo Vincent, ma penso che anche tu sia curioso di sapere in che modo posso aiutarti» 

«Assolutamente» rispose Vincent sistemando leggermente gli occhiali. 

«Il tuo Maestro mi ha informato su tutto, ovviamente eravamo già a conoscenza della vostra situazione lassù, anche se i giornali non ne parlano». 

Vincent annuiva, ma c’era sempre qualcosa che gli mancava per comprendere appieno la situazione in cui si era cacciato, accettando quella misteriosa e così vaga missione, piena di punti interrogativi. 
Perché il suo Maestro era in contatto con lui? Perché tutta questa segretezza? E soprattutto, chi rappresentava quel ragazzo all’apparenza così normale? 

«Mi rendo conto della tua titubanza Vincent, purtroppo di questi tempi siamo costretti a muoverci nell’oscurità e spesso anche le persone più fidate sono le ultime a sapere i nostri movimenti. 

«Tuttavia, penso di aver delle buone notizie per te» continuò «ci stiamo già muovendo per passare dalle parole ai fatti, presto avrai tutte le risposte che cerchi». 

Vincent continuava a non capire, ma sentiva di potersi fidare di qull’individuo. 

«Tieni» disse Alan porgendogli uno strano ciondolo a forma di libro «è una chiave, vai al distretto Distretto 11, civico 97, al momento non posso dirti altro». 

«Non capisco…» borbottò Vincent sempre più confuso. 

«Non ti preoccupare, in tanti non capiscono a questo mondo, ma ci pensiamo noi a fare luce. 

«Voi?» domandò Vincent. 

«Noi» concluse Alan sorridendo. 

«Non perderlo mi raccomando» e bevendo l’ultimo sorso della sua tisana si alzò.  
«Ora devo proprio andarmene, ricordati Distretto 11…» 

«Civico 97» concluse Vincent. 

«Ci rivediamo, stai attento» disse Alan, e se ne andò, lasciando Vincent nuovamente solo e con quello strano ciondolo in mano. 

«Ancora questo colore» pensò.

Andrea Caenazzo
Andrea Caenazzo
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