CAPITOLO VII
Era quasi ora di pranzo, e sia Vincent che Violet non mangiavano nulla dal giorno prima: troppe emozioni in quella mattinata, ma il clima sembrava diventare via via più familiare.
«Ho fame» disse Violet.
Non c’era molto nei paraggi e l’Orpheus non era il luogo ideale per mettere qualcosa sotto ai denti; il distretto 11 era perlopiù residenziale e i locali scarseggiavano.
Vincent non rispose subito, era ancora intento a studiare le pareti dell’Orpheus, immaginando le note di quell’epoca così orientata verso i fasti musicali del passato.
«Conosci gli Underpoets?» domandò distrattamente.
«No» rispose Violet «ma non devono essere molto famosi» continuò «chi fa successo viene dai reality show trasmessi dalle piattaforme di Psychonet. La selezione è durissima, e nessun artista esce come ci è entrato».
«In che senso?» domandò Vincent.
«Non c’è più la concezione artistica di inizio duemila, qui viene tutto tagliato su misura per il pubblico, anche la nascita di una canzone. Non è più opera di un artista, ma di un algoritmo».
Vincent rimase in silenzio, confuso da quella spiegazione che, seppur frettolosa, aveva dipinto una realtà distopica che andava ben oltre l’immaginazione del giovane musicista.
«Andiamo a mangiare qualcosa» tagliò corto Vincent, evidentemente ancora turbato da quelle parole.
I due ragazzi uscirono dal locale, lasciandosi alle spalle le acrobazie degli skater, promettendosi di tornare ad ascoltare gli Underpoets quella sera stessa.
«Io vorrei lasciare il mio violoncello nell’Hotel che ho prenotato» disse Vincent sistemandosi la custodia in spalla.
«Dove si trova?»
«Non molto lontano da qui, distretto 9, possiamo arrivarci a piedi secondo la mia mappa» disse Vincent consultando un foglietto stropicciato che stringeva tra le dita.
«Ti accompagno» rispose Violet.
I due ragazzi si avviarono verso il viale alberato, da dove erano venuti. Ripassarono di fronte al Fenix, un rapido sguardo alle sue mura e ai segreti che conteneva al suo interno, insieme a quelli che già aveva rivelato alla strana coppia che si era formata.
Camminavano fianco a fianco, le mani sembravano volersi sfiorare ma restavano timidamente in un binario parallelo che seguiva i passi, decisi e inesorabili, dei due.
Il silenzio era molto più eloquente di qualsiasi altro discorso, quasi a voler sancire un legame imprevedibile fino a quel primo incontro nell’autobus numero 75.
I due si studiavano con la coda dell’occhio, quasi a voler aspettare la mossa dell’altro, in una silenziosa danza verso il distretto 9.
La prima a rompere il silenzio fu Violet: «a che pensi» domandò.
«Non penso» rispose Vincent.
«È impossibile non pensare» disse Violet.
«Forse» continuò Vincent «ma non saprei dare una forma a quello che ho in testa ora, tantomeno descriverlo con le parole».
«Sei bravo con le parole»
«No»
«La tua poesia mi è piaciuta molto» disse Violet.
«È solo una poesia» rispose Vincent.
«Non è solo una poesia» continuò Violet «è una parte di te».
«Tu pensi che basti qualche parola per capire una persona?»
«Non lo so» riprese Violet «ma a me hanno trasmesso più quei pochi versi che tutte le altre cose che ci siamo detti».
«Non ci siamo detti molto» tagliò corto Vincent.
Ed era vero, sembrava una partita a scacchi, nessuno dei due voleva esporre il fianco all’altro, speculavano sulla propria identità per preservare i propri segreti, sempre che di segreti si trattasse.
Ognuno dei due si perdeva segretamente nei rispettivi sguardi, ma solo quando non guardavano, e non si trattava di un giochetto di Psychonet, erano i loro cuori spaventati e forse innamorati.
«Tu non ridi mai?» incalzò Violet.
«Rido quando è necessario»
«E quando è necessario secondo te?»
«Quando sono felice» rispose Vincent.
«Ma se non ridi mai non puoi essere felice»
«Io non rido se non sono felice»
«È un controsenso ciò che dici» continuò Violet «tu non gli dai nemmeno una possibilità alla felicità, hai paura di essere felice?»
«Forse» rispose Vincent.
«Lo sospettavo» disse Violet «si chiama cherofobia sai? Quando qualcuno ha paura di essere felice».
«Sembra il nome di una malattia»
«Lo è»
«Felicità e malattia non stanno bene sulla stessa frase» disse Vincent «e poi non credo di avere quella cosa lì, quella “cheroqualcosa”, io sto benone».
«Sei mai stato felice?» domandò Violet.
«Non saprei» disse Vincent «cos’è la felicità?»
La domanda spiazzò Violet, che fino a quel momento si sentiva di guidare la conversazione, punzecchiando qua e là quel giovane musicista, per trovare qualche punto debole in una corazza che sembrava fino a poco prima inespugnabile.
I due si fermarono, erano arrivati all’hotel Cambria, una facciata vecchia in cui l’insegna luminosa faceva da contrasto alle colonne doriche alle finestre.
Le porte automatiche si aprirono silenziosamente, rivelando un ingresso estremamente moderno e luminoso.
Gli schermi luminoso alle pareti mostravano le stanze dell’hotel, mentre un ologramma di droide stava alla reception ad accogliere i clienti.
«Nome prego» disse la curiosa proiezione.
Vincent guardò stupito Violet che, invece, non era per nulla sorpresa e concentrata più a capire se le violette all’ingresso erano vere o finte.
«Che dici? Secondo te sono vere? Io il profumo lo sento ma ho paura che sia un’illusione» disse.
«Io non sento nulla» tagliò corto Vincent, poi si rivolse all’ologramma «Vincent Van Dijk».
Il droide si colorò di viola, poi di rosso, poi tornò blu elettrico.
«Spiacente, nessun corrispettivo trovato» rispose.
«Ci dev’essere un errore» disse Vincent «avevo una prenotazione fatta due giorni fa in questo hotel, stanza singola per una settimana, nome Van Dijk».
Il droide non rispose, ma dopo qualche secondo arrivò un signore sulla cinquantina, con un elegante smoking nero.
«Buon pomeriggio signori, David Dremmond, sono il direttore. Posso essere utile in qualche modo?»
«Penso che il vostro aggeggio abbia qualche problema, non trova la mia prenotazione fatta due giorni fa» rispose Vincent con un tono di voce che Violet non aveva ancora sentito.
«Potrebbe darmi il suo cyber-ID in modo da fare una verifica?» disse il direttore con un sorriso talmente ampio da sembrare costruito.
«VV5728989»
«Un attimo per cortesia» rispose il direttore «nel frattempo se lor signori vogliono accomodarsi nella hall».
I due ragazzi andarono a sedersi nei divani rossi in pelle nella moderna hall del Cambria, in sottofondo c’era una musica jazz e un piacevole profumo di violette e vaniglia.
«Non ti preoccupare, vedrai che c’è stato un errore» disse Violet cercando di tranquillizzare il ragazzo.
Vincent non rispose, fissava l’orologio proiettato sulla parete e l’acquario virtuale che ruotava intorno a loro fra le pareti cangianti.
Dopo qualche minuto fece capolino il direttore: «sono spiacente, ma il suo cyber-ID non risulta nei nostri database» poi continuò, con un tono di voce diverso «in realtà non risulta in nessun database governativo».
A quelle parole Vincent sbiancò: «Come sarebbe scusi?» domandò.
«Signore» disse il direttore «lei, per il nostro governo e per Psychonet non esiste».
Poi continuò «sono desolato, ma date le ultime disposizioni sono costretto a chiamare le autorità per delle verifiche sulla sua identità».
«Ci dev’essere un errore» lo interruppe Violet «posso garantirle che…»
«Ho le mani legate signorina, vi prego di non abbandonare l’edificio fino all’arrivo delle autorità».
Senza pensarci troppo, Violet prese le mani di Vincent che nel frattempo era pietrificato dalle parole del direttore, e con uno spintone allontanò l’uomo di fronte a loro per dirigersi di corsa all’uscita dell’hotel.
Vincent seguiva la ragazza senza capire bene cosa stessero facendo, sentiva solo le gambe che correvano da sole, in cerca di energie sconosciute a quel corpo esile e poco avvezzo ad ogni attività sportiva.
I due correvano senza voltarsi, finché Vincent si bloccò «il mio violoncello» disse «l’ho lasciato nella hall».
«Ormai è perso, ci penseremo più avanti» rispose Violet «corri!».
Erano giunti quasi alla fine del distretto 9, ai confini del distretto 8, e il pericolo sembrava scampato, fino a quel momento.
«Siamo quasi vicini al mio studentato» disse Violet «meglio starcene lì per un po’».
«Cos’è successo?» domandò Vincent.
«Non lo so, ma non penso sia casuale, e non credo nemmeno a un errore del sistema».
«Non capisco…»
«Ultimamente capire è un lusso riservato a pochi» rispose Violet «seguimi».
Erano giunti nei pressi della Casa dello Studente, un moderno palazzo a 6 piani circondato da un parco pubblico.
La stanza di Violet era al quarto piano, per raggiungerla dovevano prendere l’ascensore.
«Ti dispiace se prendo le scale?» disse Vincent.
Violet non fece domande «allora usciamo, bisogna prendere la scala esterna».
La scala antincendio sembrava inutilizzata da anni, c’era dell’edera che correva sulla ringhiera e foglie secche sparse qua e là. Inoltre era particolarmente scivolosa, ma Vincent non ci fece caso.
«È carino qui» disse.
«Non mi lamento» rispose Violet «c’è del verde ogni tanto».
La stanza di Violet era inconfondibile: pareti lilla, peluche e grafiche di monumenti appesi alle pareti. Non c’era nulla di quell’epoca, tranne l’ologramma di un orologio proiettato su una parete.
La scrivania era ricoperta di fogli e vestiti ammassati che si dividevano con l’unica sedia presente, messa vicino alla finestra.
«Perdona il disordine» disse Violet «ho un materassino, puoi rimanere qui per qualche giorno».
Vincent non disse nulla, guardava un quadro appeso alla parete, l’unico che non rappresentava il Colosseo, il Burj Khalifa, la muraglia cinese o il Partenone.
Questa volta io non dormo,
scrivo al lume di candela
di una notte senza sonno
e di un cuore che congela.
Ho visto il buio, non ha legami,i colori si trasformano e restano sempre uguali,
anche se non ho capito, quanto costi vederli reali.
Quant’è azzurro là in alto, l’hai mai notato?
Ci accorgiamo quant’è grande solo quando il cielo è stellato
Che poi le stelle, quanto sono banali,
sogniamo di toccarle e raggiungerle in un battito d’ali.
Per cosa poi? Bruciarci ancora?
Come se la vita non bruciasse abbastanza,
ogni secondo, ogni giorno, ogni ora
Però che bello volare, vedere il mondo piccolo, piccolo, tenerlo stretto in una mano,
o con una carezza, adagio,
sentirsi liberi e dirgli “tranquillo, ci siamo”.
Quant’è verde qua fuori,
mi fa tornare bambino,
col pallone sotto un braccio,
a sfidare il destino.
Sempre di corsa, tra una spada e un’astronave,
tra un tesoro nascosto, una mappa e una chiave.
Ogni gioco è una battaglia che non lascia prigionieri, vinci o perdi, poco importa,
se a lottare sono i veri guerrieri.
Quant’è rosso sto tramonto,
sembra chiedere perdono,
a chi il Sole lo ricorda
solo quando non è solo.
E non sono in riva al mare,
sulle Alpi o al Partenone,
i tramonti, quelli veri,
stanno sulle terrazze di milioni persone,
fra le tende e i panni stesi,
quando cala la notte e rimangono i sogni illesi.
Questa volta io non dormo,
scrivo al lume di candela
di una notte senza sonno
e di un cuore che congela.
Grazie buio, sei un amico,
ora so che hai dei colori,
e anche il grigio del cemento,
può nascondere dei fiori.
«È proprio vero» pensò Vincent.