CAPITOLO XI

Vincent si risvegliò con un gran mal di testa e una leggera nausea, come dopo una sbornia. La stanza illuminata dalle strette finestre sembrava girare intorno a lui senza pietà, come se non volesse aspettare di concedere una facile risposta alle domande del giovane musicista.

L’aria aveva un odore salmastro, se chiudeva gli occhi poteva sentire il rumore del vento e l’inesorabile infrangersi delle onde: doveva trovarsi vicino al mare.

Pian piano iniziava a riprendere coscienza dei suoi arti, con movimenti lenti tutto riprendeva mobilità, così come il suo cervello; elaborare ciò che era successo nelle ultime ore non era semplice, sempre che si trattasse di ore e non di giorni. Vincent non aveva idea del tempo che era trascorso da quando il suo ultimo ricordo lo proiettava nella stanza di Violet.

E Violet? Che ne era stato di lei? Era in pericolo? E lui era in pericolo?

Non gli importava, ciò che contava in quel momento era sapere che lei fosse al sicuro, ma si sentiva impotente in quel luogo, l’unica cosa che sapeva era che non si trovava più in città.

Avrebbe potuto trovarsi miglia e miglia lontano da casa, come scoprirlo?

Si trovava sdraiato su un divano bianco, con dei curiosi cuscini etnici con fantasie di paesi lontani. Le pareti erano nude, intervallate qua e là da lanterne tibetane e piante rampicanti che si confondevano con il resto dell’arredamento.

Doveva trovarsi in un seminterrato, perché le finestre lasciavano intravedere un giardino sopraelevato, mentre una stretta scala a chiocciola si perdeva in fondo alla stanza.

Non era presente molto altro se non un piccolo tavolino da caffè ricolmo, curiosamente, di vecchi libri cartacei.

Ne aprì uno, era un libricino molto sottile con una copertina bianca con disegnata la figura di una nube antropomorfa di profilo. 

«Il mercante d’argento» lesse Vincent. Aprì la prima pagina, era un libro di poesie:

“Potessi essere un’aquila nel chiaro azzurro
e sollevarti da ogni pensiero,
fino al sole,
lasciarti cadere ogni dubbio,
guidare le tue timide ali
al di là del domani
oltre il tempo,
oltre la distanza che ci divide,
oltre il colore dei nostri cieli.

Ti terrei lontana dalle paure,
vicina al cuore,
a due passi dalla verità,
a sud della scoperta,
ai lati del mondo,
fra oriente e occidente
dove non ci sono ombre,
dove non arriva il freddo,
dove abitiamo noi”.

Non c’era il nome dell’autore, si firmava con una semplice “A.”, nulla più.

«Curioso» disse Vincent mentre continuava a sfogliare il libricino, finché a un certo punto si fermò a una data «aprile 2019».

Si guardò intorno nuovamente «dove mi trovo?» si domandò.

«La domanda non è dove mi trovo, ma quando» rispose una voce.

Dalla scala a chiocciola fece capolino un’esile figura femminile, con un lungo abito bianco e i piedi scalzi. Sul capo portava una sottile corona di fiori, probabilmente margherite, mentre ogni suo movimento era accentuato dal tintinnare dei bracciali che portava ai polsi e alle caviglie.

Ciò che colpì di più Vincent fu inevitabilmente il curioso colore dei capelli della giovane ragazza: un turchese vivo, che impreziosiva gli occhi di un verde cangiante, incastonati in un viso dai lineamenti sottili, una pelle color porcellana resa vivace da una spruzzata di lentiggini, come se un pittore si fosse divertito a inserire qualche piccola imperfezione in un corpo troppo perfetto.

A completare il quadro, un piccolo anello al naso e dei tatuaggi variopinti in braccia e petto, in contrasto con la leggiadria della figura, quasi eterea, che era apparsa a un Vincent sognante e ancora scosso dal brusco risveglio.

«Quando?» domandò Vincent alla ragazza.

La giovane, con passo felpato, si avvicinò al musicista e con un sorriso rispose:

«Quando».

Vincent non aprì bocca, aveva troppe domande dentro di sé, ma da quello che aveva imparato nella sua precedente esperienza sensoriale era che ogni luogo aveva le sue regole. Tutto aveva un senso, se rapportato alla dimensione spazio-temporale in cui era collocato, e in quel momento doveva ancora capire dove si trovava.

«Vincent Van Dijk» disse la ragazza «ti trovi nell’anno 2020, a migliaia di chilometri da casa tua, ancora più lontano rispetto al luogo in cui ti sei addormentato. Hai viaggiato per diversi anni, il tuo corpo deve abituarsi a questo tipo di viaggi, i tuoi organi interni hanno risentito dello sbalzo temporale e hai bisogno di liquidi. È come se tu fossi rimasto decine di anni senza bere, non alzarti di colpo, ci sarà tutto il tempo per le domande».

Vincent rimase impietrito, ma mantenne la calma, in fondo non era la cosa più strana che gli era capitata in quei giorni.

«Tieni» disse la giovane ragazza dai capelli turchesi «bevi questo» continuò, porgendogli una tazza metallica con una bevanda dal vago profumo di gelsomino e un colore indefinito.

Vincent bevve senza fare domande, quella ragazza, nonostante il suo aspetto eccentrico, gli ispirava fiducia, ed effettivamente dopo pochi secondi iniziò subito a sentirsi rinvigorito, e il mal di testa era sempre meno insistente, così come quel fastidioso senso di nausea.

«Chi sei?» domandò Vincent.

«Il mio nome è Nausicaa» rispose la giovane «e sarò la tua guida per il tuo breve soggiorno negli anni ’20 del nostro millennio».

«Anni ’20?» pensò Vincent; effettivamente tutto aveva senso, lo strano arredamento, quell’aria di tempo passato, i colori più veri, l’atmosfera ovattata e sospesa. Tutto acquistava un significato se rapportato a quella dimensione temporale; ma come aveva fatto a finire lì? Che fosse un trucco di Psychonet? O che ci fosse invece lo zampino di Orange Romance?

Con sguardo indagatore cercò nella stanza qualche altro indizio che lo potesse ricondurre ad altre spiegazioni plausibili per quell’incredibile sbalzo temporale: come era potuto finire a decine di anni prima rispetto al suo tempo? E che ne sarebbe stato di lui? E Violet? Lo stava cercando?

Improvvisamente sentì un fortissimo bisogno di aria, forse un attacco di panico, forse una spiacevole conseguenza di quel viaggio.

«Nausicaa, non mi sento tanto bene» disse Vincent ansimando.

«Non ti preoccupare, è normale per viaggi lunghi come il tuo, vieni qui andiamo a prendere una boccata d’aria» disse dolcemente la giovane.

Vincent si alzò lentamente dal divano, aiutato da Nausicaa, che si rivelò più forte di quello che poteva lasciar presupporre un corpo così esile.

Con qualche difficoltà passarono per la scala a chiocciola, con il braccio di Vincent appoggiato sulla spalla di Nausicaa che, tuttavia, non sembrava affatto in difficoltà nonostante il peso del giovane musicista.

Passarono per uno stretto corridoio, finché non si trovarono di fronte a una porta a vetri.

«Preparati, la luce del 2020 potrebbe darti un po’ fastidio» disse Nausicaa mentre apriva la porta.

La visione per Vincent fu come una dolcissima carezza dopo un pugno nello stomaco, a cui non era abituato: dune di sabbia intervallate da piccoli e bassi arbusti, mentre in lontananza si estendeva una distesa blu: il mare.

In cielo volteggiavano dei gabbiani, in una danza inesorabile e silenziosa. Era tutto come lo aveva sempre sognato, eppure le sfumature erano completamente diverse, come se si fossero aggiunti i filtri del tempo.

«È come se questo posto lo conoscessi già» disse Vincent.

«È così» rispose Nausicaa.

I due rimasero in silenzio per un po’, a contemplare il paesaggio incantato. Vincent seguiva con lo sguardo la passerella di legno che si perdeva tra le dune, come il suo pensiero che andava a nascondersi fra i meandri dei ricordi. Ora riaffiorava qualcosa, ora non più.

Stava giocando a nascondino con la sua coscienza, a che epoca apparteneva?

«Ora sto molto meglio» disse Vincent «ma ho un’altra domanda da farti, se permetti».

Nausicaa non rispose ma fece un leggero cenno col capo, come per far continuare il giovane musicista.

«Chi mi ha portato qui?»

«Ci sei arrivato da solo» rispose Nausicaa.

Vincent si fermò un attimo a riflettere, non era possibile, era convinto di aver sentito qualcuno dargli un colpo in testa.

L’ultima cosa che ricordava era un viaggio mentale in cui aveva avuto un incontro ravvicinato con la sua coscienza, qualcosa di surreale ma incredibilmente concreto. Nulla prima di allora aveva raggiunto quel livello di intensità, fino a quell’onda di luce che l’aveva svegliato.

E se non si fosse mai svegliato? E se stesse ancora sognando?

«Chi mi garantisce che non sono sotto l’effetto di qualche droga o in qualche trucchetto di Psychonet?» domandò Vincent.

Nausicaa si voltò verso di lui, aveva un’espressione seria ma incredibilmente comprensiva.

«Vedi quella passerella?»

«Sì» disse Vincent.

«Seguila, finché non arrivi al mare. Tuffati, e prova a te stesso che non c’è nulla di più reale di questo».

Vincent esitò un attimo, finché, dopo un lungo sospiro, si diresse deciso verso l’orizzonte, lì dove si perdeva l’azzurro del mare.

Seguì la passerella, si perse fra le dune e fra i profumi dell’origano e del mirto selvatico, finché non raggiunse la riva.

Il suono delle onde era qualcosa di nuovo per lui, c’era una leggera brezza, il cielo era velato e il sole si nascondeva dietro una leggera cortina di nuvole.

Iniziò a togliersi le scarpe, poi la camicia, i pantaloni e tutto il resto: non c’era anima viva lì intorno, solo il suono delle onde e lo stridio dei gabbiani.

Una breva rincorsa e si tuffò; l’acqua lo avvolse con un freddo abbraccio, mentre le onde lo cullavano in una dolce ninna nanna. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalla corrente: non si era mai sentito così vivo.

Andrea Caenazzo
Andrea Caenazzo
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